A settant’anni conserva negli occhi celesti e nel sorriso friabile una grande parte del ragazzo che colpì Giovanni Testori al punto da indurlo a scrivere per lui il suo Factum est, che potremo rivedere a quarantun anni dal suo debutto questa sera, a Milano, presso la chiesa della Passione.
Un attore particolare è stato: ed è. Così si chiamano quelli come lui, nel mondo del Teatro: attori particolari. Che può voler dire bravi, bravissimi, geniali, ma adatti ahimé solo per alcune parti, ruoli speciali, e dunque non destinati alle Grandi Carriere. Andrea Soffiantini non è di quegli attori che finiscono nel salotto di Fabio Fazio a raccontare le solite storie della loro vita passata, tutte piene di grandi personaggi citati solo col nome proprio: Giorgio (Strehler), Vittorio (Gassman) e così via. Con attori come Andrea, anche il concetto di vita passata non ha un vero senso: eccolo qui, stessi occhi, stesso sorriso. Tra le mille vicende della sua strana vita non ha mai smesso di portare in giro il suo Factum est, che è più che un testo: è la sua stessa definizione, il suo secondo battesimo. «Del resto» dice «i conti con questo bambino concepito e poi rifiutato, che anche da morto continua a voler esistere, sono gli stessi del Natale. Il Natale è questo teatro in cui un bambino, che è Dio, deve cominciare a difendersi fin dal primo pianto».
Riavvolgiamo il nastro e torniamo a quell’anno fatidico, il 1978, che fu l’anno della strage di via Fani e dell’assassinio di Aldo Moro. Per qualcuno, compreso il sottoscritto, il ’78 fu anche e soprattutto l’anno dell’incontro con Giovanni Testori, di cui in quest’anno si è celebrato il centenario dalla nascita. Testori ha cambiato la vita di tanti che lo hanno conosciuto, sia di persona sia attraverso la sua opera. Tra questi tanti, anche il sottoscritto. E lui, Andrea.
Dunque, il 1978. Folgorato dall’incontro con questo gruppo di giovani, Testori decide di scrivere per loro. Tutti poco più che ventenni, tutti splendidamente ignoranti. Testori vede in loro una forza di gloria e di morte, come pugili, lottatori, o come bestiame che porta il marchio a fuoco e non lo sa.
C’è una compagnia amatoriale, a Forlì. Era nata alla fine degli anni Sessanta. Prima si chiamava Compagnia Viva, ma da poco ha cambiato nome, dal teatro dove presentava i propri spettacoli: il Teatro dell’Arca. Loro sono quelli dell’Arca. «Presentavamo testi proibiti, o quasi: da storie nate dalle favelas brasiliane a testi dell’editoria clandestina russa (samizdat)». Andrea non è forlivese d’origine, viene da Milano. Suo papà lavorava come amministrativo alla Orsi Mangelli (Omsa), famosa per le sue calze. Erano gli anni rampanti di Milano, quando le fibre sintetiche facevano la fortuna di tanti imprenditori. Ma la fabbrica era a Forlì, così a papà Soffiantini fu chiesto, nel 1967, di trasferirsi lì, armi e bagagli. Ma i cugini erano rimasti a Milano, e «facevano il ’68» nelle file del MS. «Io sognavo» racconta «di fare lo stesso con questi spettacoli: politica, rivoluzione. Invidiavo i miei cugini. Poi, col tempo, mi sono reso conto che non stavamo facendo proprio la stessa cosa…».
Dunque, Testori s’innamora della compagnia, le affida il suo Interrogatorio a Maria e lì, durante le prove, sceglie Andrea per il suo prossimo lavoro. Andrea è il più bello del gruppo, è biondo, occhi celesti, e nella sua voce qualcosa trema, laggiù, in profondità. Testori ascolta quel tremito, sente in esso l’eco del primo tremito, della prima voce che prorompe dai polmoni di chi è appena venuto al mondo. E, come detto, apparecchia per lui Factum est.
S’interessa a lui anche Franco Parenti, che lo vorrebbe nella parte di Renzo ne I Promessi Sposi alla prova di Testori, del 1984. Ma lo stesso Testori frena, perché c’è un nuovo testo, Post-Hamlet, che una neonata compagnia da lui fondata (gli Incamminati) deve mettere in scena. Sono due Testori differenti: quello delle sale piene e quello delle barricate. E Testori vede Andrea sulle barricate.
Era l’occasione per entrare nel Grande Teatro, e fu persa. Sliding doors. Nello stesso anno, poi, Testori conosce Branciaroli e per Andrea lo spazio si restringe anche tra gli Incamminati. Andrea non depreca l’occasione persa, non se la prende con il maestro, o quantomeno dice di non essersela presa: tant pis, tant mieux. Io, dice, non mi sentivo pronto per quella vita. È sposato, ha famiglia, e poi nel 1984 gli muore il papà, e la mamma, rimasta sola, chiude la casa di Milano e decide di andare a vivere a Forlì. Lui per un po’ resta a Milano, vive in un residence in via Galvani, poi non ce la fa più e torna anche lui a Forlì.
Tutto lo riporta alle origini. Ma adesso tante cose sono cambiate, la vecchia Compagnia dell’Arca fatica a riaccogliere il transfuga, tengono tutti famiglia, e poi c’è un teatro da gestire, con tutte le sue rogne (migliorie tecniche, contratti, paghe, manutenzione ordinaria, programmazione, promozione, produzione…). «Io sono capace solo di salire su un palco», ammette.
Troppo poco. Ennio Flaiano l’avrebbe chiamata «una vocazione eccessiva». I russi la chiamavano «la malattia alta». È una questione di carattere (caratteri non facili, sia detto): ci sono artisti, poeti, scrittori così artisti da sentirsi a disagio perfino nel loro mondo, il mondo appunto dell’arte o della letteratura. Possono scrivere opere-mondo, ma non hanno un mondo. Li chiamarono maledetti, un tempo, ma se il mercato prende il sopravvento le sole singolarità (o skills) accettabili sono, alla fine, quelle da cui si può guadagnare qualcosa. Nessuna mente aperta è poi così aperta.
Insomma, questo ritorno a una dimensione più domestica, da papà e marito, con una mamma da accudire, assomiglia molto al fragile dolce destino che Testori aveva immaginato per lui. È una dimensione difficile, però: nessuno riaccoglie Andrea come un eroe, anche perché non lo è, o non lo sembra.
Lavora molto per le scuole, un mercato allora molto fecondo. Un regista polacco, Tadeusz Bradecky, mette in scena per l’Arca molti testi di cui Andrea ottiene spesso il ruolo principale. Tra Shakespeare e Kieslovskij c’è posto perfino (anno 1985) per un’opera prima del ventinovenne Luca Doninelli, un Pinocchio. Andrea lavora per un anno anche alla Rai, in un programma per bambini. Una sua geniale idea viene bocciata: un programma dedicato ai libri malati, con un dottore che li cura estraendo brani e frasi.
Nel 2001, colpito dalla notizia che Luca Ronconi realizzerà uno spettacolo sulla scienza (Infinities, testo di John D. Barrow), propone al grande regista una pagina di Giorgio Prodi sulla differenza tra «cellula sana» e «cellula malata»: la cellula sana muore, quella malata si riproduce all’infinito – dunque l’idea di infinito pertiene più alla cellula malata che a quella sana. Meditate gente, meditate, diceva Renzo Arbore.
Ronconi è molto colpito, ma ormai lo spettacolo è già fatto, e per Andrea la storia finisce come sempre. Entrare nel grande giro non è il suo destino.
Dal tono della voce di Andrea si indovina una giusta perplessità: se è un bene che sia andata così, sarebbe poi stato un male se fosse andata nell’altro modo? E se la carriera politica di Dante fosse stata premiata dal successo e la Commedia non esistesse, sarebbe stato un bene? La risposta ce la dà lo stesso Dante: il bene è quello che si trova («ch’i’ vi trovai»), non quello che si sarebbe potuto… dovuto…
L’ultimo capitolo della sua storia riguarda quel grande personaggio che è Andrée Shammah, la quale lo vede alla Sala Fontana recitare L’uomo la bestia e la virtù di Pirandello e, colpita, lo vuole con sé destinandolo a quei ruoli di contorno ma importantissimi su cui si regge l’impianto di tanti spettacoli: per esempio quello del servitore, o dell’assistente. «Io sono sempre stato bravo a trovare subito la chiave dei personaggi che mi venivano affidati», dice Andrea. Shammah capisce la natura profonda di questo talento, la natura cattolica (lei, ebrea), e si augura che «tra i nostri muri si possano aprire delle piccole porte».
Il destino di Andrea Soffiantini si riassume, credo, nella figura di questi servitori, i servi inutili del Vangelo. Talento finissimo e riconosciuto da tutti ma risparmiato dal grande successo, Andrea ha avuto il privilegio di servire sempre ciò che doveva crescere: la nascita di una grande Compagnia (gli Incamminati), il teatro per le scuole, la tv per i bambini, la sua famiglia. Ancora bello a settant’anni, segnato dall’enfant gâté che Testori aveva visto in lui, sempre disponibile a ripetere l’avventura unica di Factum est, nel cui testo (che racconta la vita di un non-nato) è presente la chiave della sua singolare natura.
Il suo è un racconto diverso da quelli degli ospiti di Fabio Fazio. E ci fa riflettere su cosa sia, veramente, il successo: una fedeltà semplice, ironica, al destino così come ci si rivela giorno per giorno, a quella ferialità della vita in cui, più che nel trionfo, un essere umano può, finalmente, ritrovarsi.