«Il cashmere è un bene rifugio» sostiene Giulia Sartini, responsabile dell’ufficio stile donna di Falconeri, marchio dell’ex Gruppo Calzedonia oggi ribattezzato Oniverse che ha reso accessibili per non dire popolari i prezzi dei capi realizzati nella nobile fibra. Da Falconeri un pullover girocollo in cashmere ultra-fine costa 149 euro: meno di un terzo della classica T shirt in cotone di un noto marchio made in Italy. «Loro fanno pochi pezzi e noi tantissimi: se aumenti la scala di produzione puoi diminuire i prezzi» spiega Sartini. Vero, ma il fenomeno della cosiddetta economia di scala non basta a giustificare la distanza siderale tra i 6000 euro del montgomery misto lana di un altro brand del lusso italiano e i 1500, massimo 1700 dei due cappotti più belli della collezione che Falconeri ha mandato in passerella lo scorso ottobre con uno spettacolo intitolato «Il viaggio del nostro Cashmere».
Come mai avete deciso di sfilare, volete triplicare i prezzi anche voi?
«Ma neanche per idea, la nostra mission è dare un prodotto di qualità a più gente possibile. Semplicemente ci sentivamo pronti ad affrontare la passerella, avevamo qualcosa da raccontare. Per esempio quei due cappotti sono davvero speciali. Uno ha non so quanti punti diversi sulla schiena e un bordo di pelliccia che scende dal collo all’orlo. Dentro lì sono perfino riuscita a nascondere le tasche, una bellissima soluzione. L’altro, invece, ha un fantastico taglio a cappa e anche qui ho messo i bordi in pelo però sulle maniche. Costano il giusto, ovvero rispettano quel rapporto qualità-prezzo che non bisognerebbe mai dimenticare».
Per questo dice che il cashmere è un bene rifugio?
«Lo dico perché è una risorsa naturale disponibile in quantità limitata. Deriva dalla capra Hircus che vive solo in Mongolia e in quella zona dell’altipiano dell’Alashan detta Inner Mongolia. Per avere una fibra lunga e particolarmente morbida le capre devono essere pettinate, non tosate. Ci vogliono 25 minuti per pettinare una capra mentre per tosarla ne basterebbe uno».
E’ vero che in Mongolia non vedono di buon occhio chi compra il cashmere perché i giovani con i primi guadagni scappano dalle montagne e smettono di fare i pastori?
«La Mongolia è grande 7 volte l’Italia è ha tre milioni di abitanti, due milioni dei quali vivono in città. Noi compriamo anche dai piccoli produttori e dai pastori nomadi, ma stiamo pure costruendo una fabbrica che offrirà a tanta gente lavoro e sicurezza in loco. Dovrebbe essere a regime nel giro di un anno, non vedo l’ora».
Ma cosa ci farete?
«In Mongolia ci sono greggi da 300 capre che danno sui 70 chili di succido, ovvero di fibra sporca che, una volta lavata, si riduce del 40%. Questa operazione si chiama egiarratura perché oltre a lavare via lo sporco separi le fibre corte dette «giarra» da quelle lunghe del vello: il cosiddetto fiocco. Solo a questo punto puoi procedere con la filatura. Il Gruppo ha acquistato la Dorama, un’azienda specializzata di Biella in cui viene fatta più di metà della produzione dei filati per Falconeri».
In poche parole volete raddoppiare i quantitativi?
«Si può sempre fare di più e meglio. Certo ogni anno nel mondo sono disponibili solo 10 milioni di chili di fiocco e noi l’anno scorso ne abbiamo acquistato quasi un milione, per la precisione più di 700 mila chili».
Ma quanti capi producete con tutta questo cashmere?
«Con il fiocco produciamo due tipi di filato: l’ultra-fine sottilissimo e pettinato che usiamo per le maglie da portare a pelle e quello più grosso e peloso che si ottiene con la cardatura. Poi abbiamo 300 macchine che fanno oltre 4000 capi di cashmere al giorno».
Ma è un’enormità, può ancora parlare di bene rifugio?
«E’ proprio questo il punto: fare tanto non t’impedisce di fare bene, ma, anzi, ti permette di fare tutto a prezzi ragionevoli. Certo lo devi volere».