Da una parte la tragedia dei tre ostaggi uccisi per errore dall’esercito israeliano, dall’altra le pressioni di Joe Biden per un cessate il fuoco e, non ultima, l’ostinata resistenza di Hamas che a Gaza non sembra mollare il colpo. Sono le tre buone ragioni che avrebbero convinto il premier israeliano Netanyahu a lasciar partire il capo del Mossad David Barnea atteso sabato a Oslo dal primo ministro qatariota Mohammed Al Thaniper discutere una nuova fase negoziale. E in serata alcune fonti hanno riferito alla Cnn che i negoziati per la liberazione degli ostaggi «sono stati positivi». Dall’Egitto, è stata confermata l’apertura a un nuovo cessate il fuoco, ma «permane disaccordo sui dettagli» tra Israele e Hamas.
Nonostante l’apparente determinazione del suo premier – pronto anche ieri ad esibire una lettera in cui alcuni familiari di soldati caduti lo esortano a «non fermarsi a metà» – il governo israeliano starebbe valutando l’ipotesi di una soluzione negoziata. Anche perché al 73esimo giorno di guerra le pressioni internazionali si stanno facendo insostenibili. I segnali più evidenti arrivano da Washington. Alla richiesta di attenuare i bombardamenti su Gaza avanzata giovedì dal Consigliere per la Sicurezza Jake Sullivan è seguito l’arrivo in Israele del segretario alla Difesa Lloyd Austin. La missione – non ufficiale – del capo del Pentagono è chiaramente quella di piegare a più miti consigli Yoav Gallant, l’omologo israeliano deciso a prolungare le operazioni per molti altri mesi.
Ma le pressioni non sono più solo americane. Dopo la richieste inglesi e tedesche per un «cessate il fuoco sostenibile» anche il ministro degli esteri francese Catherin Colonna ha chiesto una «tregua immediata e duratura». Sull’onda di queste pressioni i colloqui di Oslo tra il capo del Mossad e il premier qatariota diventano un possibile spartiacque. Al centro dell’incontro non vi è soltanto la sorte dei 130 ostaggi ancora nelle mani di Hamas, ma anche la possibilità di una soluzione «finale» del conflitto. La soluzione prevederebbe il rilascio degli ostaggi accompagnato non solo dalla liberazione di un cospicuo numero di prigionieri palestinesi, ma anche dall’abbandono di Gaza da parte dei capi di Hamas e dei suoi militanti. La soluzione ricalcherebbe quella negoziata nel 1982. Allora il governo israeliano accettò di lasciar partire da una Beirut assediata dal proprio esercito il capo dell’Olp Yasser Arafat e i combattenti di Fatah.
La soluzione venne agevolata da una Tunisia pronta ad accogliere e ospitare la dirigenza palestinese. Quarantuno anni dopo l’addio di Hamas a Gaza potrebbe venir favorito da un altro interlocutore nordafricano, ovvero da quell’Algeria che non ha smesso di sostenere il gruppo fondamentalista neanche dopo gli attacchi del 7 ottobre. I segnali di un’entrata in gioco di Algeri accompagnata da un ridimensionamento del sostegno qatariota ad Hamas non mancano. Una settimana fa i principali esponenti della dirigenza di Hamas, ovvero Ismail Hanyeh e Khaleed Meshaal, avrebbero lasciato Doha per una destinazione sconosciuta.
La nuova meta secondo fonti mediorientali sarebbe proprio Algeri. La repentina migrazione sarebbe il primo segnale di un evidente riallineamento del Qatar. Un riallineamento che potrebbe convincere Yahya Sinwar e Mohammed Deif rispettivamente capo politico e militare di Hamas a Gaza, ad accettare la resa e il trasferimento in Algeria assieme alle migliaia di militanti sopravvissuti all’offensiva israeliana.