Il Papa e i giudici promossi: stipendi e cittadinanza

Il Papa e i giudici promossi: stipendi e cittadinanza

A pensar male si fa peccato: qualche volta ci si azzecca, stavolta no. Riesumare una massima di Giulio Andreotti è d’obbligo mentre si legge un provvedimento motu proprio firmato da Papa Francesco lo scorso 4 dicembre. Il documento numero DCXXVI che il Giornale ha potuto consultare è la legge recante «Disposizioni per la dignità professionale e il trattamento economico dei magistrati ordinari del Tribunale e dell’ufficio del Promotore di giustizia dello Stato della città del Vaticano». Già. A distanza di pochi giorni dal verdetto che ha condannato a cinque anni e sei mesi monsignor Angelo Becciu, Bergoglio ha deciso di promuovere al rango delle più alte gerarchie vaticane chi ha portato alla sbarra il monsignore e chi ne ha deciso la condanna, vale a dire Alessandro Diddi e Giuseppe Pignatone: «Il presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano e il Promotore di giustizia sono inquadrati retributivamente nella categoria dirigenziale C1, quale prevista dal Regolamento per il personale dirigente laico della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano del 22 ottobre 2012». Un livello che allinea i due ai responsabili di un Dicastero, ma che per loro presenta il vantaggio del possibile cumulo di redditi e pensioni al di qua del Tevere. Oltre allo stipendio, che non dovrebbe essere lontano dai 60mila euro l’anno esentasse in Italia, i due avranno diritto anche alla cittadinanza vaticana (con tutte le guarentigie che questa comporta) e a una serie di prebende: indennità dirigenziale, indennità di trasferta, gettone di presenza per prestazioni nella domenica e in giorno festivo secondo il calendario vaticano ma anche trattamento di fine servizio e pensione interamente reversibile, pari all’80% dell’ultimo stipendio, dopo 15 anni.

Il documento non è stato ancora pubblicato negli Acta sanctae apostolicae sedis, ma viene disposto che «l’originale della presente legge, munita del Sigillo dello Stato, sia depositata nell’Archivio delle leggi dello Stato della Città del Vaticano e che il testo corrispondente sia pubblicato negli e, quindi, mediante affissione nel cortile di San Damaso, alla porta degli uffici postali del Governatorato, mandandosi a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare».

Nel day after della condanna di Becciu per peculato, al netto della fumosità di alcuni passaggi del dispositivo che in sostanza certificano come l’ex potente cardinale non si sia messo in tasca nulla ma abbia solo avallato decisioni «benedette» altrove (vedi l’affaire Sloane Square), l’amarezza in alcuni ambienti vaticani si è fatta sentire: sia per la gestione del processo troppo «spostata» sull’accusa, neanche fosse il Sinedrio, sia per la tempistica della sentenza (di sabato, proprio all’inizio della Novena di Natale). «E chi pensa che in appello la condanna possa ridursi dovrebbe studiarsi la riforma del sistema giudiziario concepita dal Papa», dice una fonte che ha seguito tutte le udienze. E poi, che fine fa «monsignor Becciu», che stasera sarà a Cinque minuti su Raiuno da Bruno Vespa? Non è più tra gli elettori in Conclave ma resterà cardinale? E dov’è l’atto di deposizione?

Ma quasi tutte le fonti contattate dal Giornale fanno spallucce sulla legge motu proprio, come fosse tutta una spiacevole coincidenza. «Se guardiamo ai tempi biblici del Vaticano, la decisione probabilmente è stata decisa mesi prima – ammette un vaticanologo – escludo che Pignatone e Diddi si siano fatti condizionare da qualche spicciolo o dalla lusinga della cittadinanza». Ma resta lo stupore per un provvedimento legato a un caso che, come scrive il Sismografo (lettissimo sito di vaticanerie che ieri ha annunciato la chiusura dopo 17 anni), «denuda una modalità singolare dell’esercizio del potere da parte di Papa Francesco».

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