Scriveva difficile. Ma alla fine il suo pensiero era chiaro. Nel 1976 nel saggio, complicato se non contorto sin dal titolo, Proletari e Stato e nel successivo Il dominio e il sabotaggio, va giù dritto senza giri di parole: «Dentro lo stabilizzarsi della crisi, la violenza assume infatti una valenza fondamentale. Essa è la calda proiezione del processo di autovalorizzazione operaia. Non sapremmo immaginare nulla di più completamente determinato, di più ingombro di contenuti, della violenza operaia. Il materialismo storico definisce la necessità della violenza nella storia: noi la carichiamo dell’odierna qualità dell’emergenza di classe, consideriamo la violenza come una funzione legittimata dall’esaltazione nel rapporto di forza della crisi e dalla ricchezza dei contenuti dell’autovalorizzazione proletaria».
Da Marx e da Lenin alle spranghe e alle P38. Il cattivo maestro è tutto in queste poche righe: Toni Negri, morto ieri a Parigi all’età di novant’anni, è stato l’ideologo che ha portato una parte, minoritaria ma non esigua, della sinistra verso gli anni di piombo e la tragedia della lotta armata.
Naturalmente non c’era solo lui perché quello era il clima del post 68, ma il professore padovano, il più giovane ordinario di Filosofia della politica in Italia, è colui che, da posizioni accademiche e con lo spessore dell’intellettuale, ha la forza e il prestigio di spingere una generazione di giovani verso il disastro della rivoluzione che pare a portata di mano.
Un percorso che pare la lunga marcia verso la conquista del potere ed è invece solo un sentiero verso una stagione di lutti e dolore.
Negri ci mette la testa ma anche la sua biografia, militante, il carcere e la fuga in yacht, la latitanza a Parigi e l’amicizia con i Guattari e i Deleuze, tutto contribuisce a farne un’icona e una guida per le frange più estremistiche della gauche di casa nostra. Negri è insomma la calamita che cattura alcune delle energie più vive uscite dal frullatore del 68. Il Pci, ormai sempre più lontano da tentazioni barricadere, diventa un perno dell’ordine costituito, lui prova a scardinarlo con i suoi saggi ma anche con le mosse sul campo: nel 1969 con Oreste Scalzone e Franco Piperno è fra i fondatori di Potere operaio; intanto, incrocia più volte Renato Curcio che in quel tormentato crocevia storico fonda le Brigate rosse.
Le Br si considerano l’avanguardia del popolo, Negri ha un’idea più sofisticata: la violenza più diffusa. E infatti, sciolto Potere operaio, ecco farsi avanti Autonomia operaia che pratica lo squadrismo quasi alla luce del sole.
Pestaggi. Gambizzazioni. Minacce. Un segmento importante della sinistra si sposta nella seconda metà degli anni Settanta sul crinale della lotta armata e i confini fra un’organizzazione e l’altra sono talvolta nebulosi. Dal servizio d’ordine di Lotta continua nasce Prima Linea e uno dei suoi leader, Maurice Bignami, viene fermato a casa Negri. Di fatto l’Autonomia è il mare più grande in cui nuotano i pesci delle Br e delle altre formazioni terroristiche. C’è tutta un’area dell’opinione pubblica che ha simpatie per quei ragazzi che imbracciano le armi e uccidono. Del resto lomicidio Calabresi a Milano, nel 1972 è stato preceduto da una violentissima campagna di stampa e quasi annunciato da un manifesto firmato da centinaia di nomi altisonanti. Una pagina di vergogna nazionale.
Il 7 aprile 1979 Negri viene arrestato e Autonomia decapitata. Ma i giudici di Padova hanno preso un colossale abbaglio: non è lui il capo delle Br, anche se è lui ad aver iniettato dosi non omeopatiche di estremismo in un paio di generazioni. Nel 1983 viene eletto deputato grazie ai radicali e scappa in Francia. Le accuse più gravi cadono ma arriva la condanna per banda armata a 12 anni. Torna nel 1997 e continua a scrivere tomi raffinati. Ma per fortuna quella stagione, inquieta e sanguinaria, è finita.