Non è una novità che la dinamica dei salari in Italia sia tra le meno favorevoli all’interno dell’area Ocse, ma scoprire che negli ultimi trent’anni gli stipendi dei lavoratori italiani sono aumentati dell’1% a fronte del 32,5% medio, provoca qualche fitta allo stomaco. Secondo la dottrina economica, il profondo divario ha una spiegazione persino banale: alla base di tutto c’è la mancata crescita della produttività, ossia la ridotta efficienza del sistema produttivo che a sua volta frena la crescita del Pil, impedendo agli stipendi di aumentare di conseguenza. Se ciò spiega il fenomeno, che cosa ha impedito alla produttività delle nostre imprese di crescere quando in Germania, Francia o Stati Uniti è addirittura svettata? Ci sono numerose concause alla base di questa anomalia: la desertificazione del panorama dei grandi gruppi industriali, la scarsa preparazione degli imprenditori medio-piccoli, l’adozione troppo lenta delle innovazioni tecnologiche, la modesta formazione dei lavoratori, l’inefficienza del settore pubblico, la scarsa meritocrazia e l’arrocco del sindacato colpevolmente fermo su posizioni anacronistiche e strumentali alla sua sopravvivenza. Ma dietro tutto ciò c’è un peccato d’origine che negli ultimi trent’anni nessun governo ha saputo affrontare con convinzione: l’assenza di una politica industriale. Il risultato di questa triste combinazione è che in Italia ogni ora lavorata produce mediamente 55 dollari di Pil, in Germania 67, in Francia 68 e negli Stati Uniti 73. Ecco perché i salari non sono eguali.
Dunque, il sistema economico nel suo complesso non è stato in grado di evolvere come altrove: in questo senso, gli stipendi italiani sono lo specchio del Paese. E qui viene facile demistificare la credenza secondo la quale il livello dei salari è basso a causa delle tasse sul lavoro: benché sia spesso citato nel dibattito politico-sindacale, il cuneo fiscale in Italia è in linea, se non inferiore, con il resto dei principali Paesi europei. Sia chiaro, tasse più basse aiutano, ma non è questa la strada maestra per accrescere i salari. Del pari, non basta attaccare un computer alla presa, se prima non si sono riorganizzati i luoghi di lavoro utilizzando modelli di gestione meritocratici e orientati ai risultati. Qui incide anche la non sufficiente istruzione degli imprenditori, spesso refrattari a nuovi investimenti (soprattutto se destinati all’innovazione) e quindi incapaci di cogliere il valore della ricerca di dipendenti specializzati più istruiti. Sicché bassa domanda e bassa offerta di competenze fanno dell’Italia un soggetto che a tratti sembra più in concorrenza con i Paesi emergenti che con Paesi come Francia e Germania.
Sono questi i tasti sui quali dovrebbe battere Confindustria, invece di limitarsi a pietire incentivi e tagli del cuneo, che sono certamente importanti in fase di rilancio della crescita, ma che diventano efficienti solo a condizione che l’imprenditore faccia la sua parte. Quanto al sindacato, se la contrattazione collettiva ha avuto il merito di tutelare i lavoratori di bassa professionalità, tanto che in non pochi casi da noi guadagnano di più rispetto alla media europea, ha però schiacciato verso il basso gran parte delle retribuzioni di chi meriterebbe di più, rendendo così il sistema ingessato e più esposto alla logica dei bonus e degli «stimoli» sciagurati come il Reddito di cittadinanza.
Non che le imprese italiane siano prive di meriti. Persino in Germania restano stupiti dal fatto che, nonostante la sua bassa produttività, l’economia italiana possa godere di importanti punti di forza. L’Italia, infatti, è la seconda potenza industriale dell’Unione, trainata da un forte settore manifatturiero che ha sempre esportato più beni industriali di quanti ne abbia importati – persino durante la crisi pandemica – consentendo al Pil un rapidissimo recupero dopo quel drammatico crollo. Ma per poter produrre benefici all’intera filiera produttiva, questa capacità non comune deve essere inquadrata in un progetto che partendo dalla messa a terra del Pnrr produca, anche grazie a un accorto ricorso all’Intelligenza artificiale, un’autentica rivoluzione culturale. Se le politiche di austerity e le riforme strutturali avviate negli Anni Novanta non sono riuscite a portare l’Italia su un sentiero più virtuoso, è necessario che il governo promuova una coraggiosa strategia d’investimento di lungo periodo, non in un’ottica dirigista ma di migliore organizzazione delle risorse. Giusto l’esempio del settore della logistica: non avendo mai avuto campioni nazionali in questo campo, ci siamo ridotti a servire le grandi multinazionali globali che hanno legittimamente usato l’Italia per i loro obiettivi commerciali. Siamo così diventati meri fornitori di servizi, tra l’altro spesso a basso valore aggiunto.
Ebbene, dobbiamo smetterla di realizzare opere restando un’area essenzialmente di transito delle merci verso altre destinazioni finali. Dunque, non di solo Patto di Stabilità si deve dibattere: il governo, che ha già dimostrato non poco coraggio nel cancellare tabù molto popolari e però devastanti per le casse del Paese, deve ora guardare più in alto. Deve sconfessare le strategie basate sul mero abbattimento dei costi che, come abbiamo visto, hanno avuto effetti negativi sui salari e sulla domanda nazionale e hanno contribuito al declino della produttività. È tempo di una politica industriale degna di questo nome.