I soli libri che meritano di essere letti sono quelli che non sappiamo più leggere. Prendete Francesco Arcangeli. La nave di Teseo si è lanciata in una impresa editoriale eccezionale, pubblicando gli scritti dello storico d’arte in due volumi che, messi uno sopra l’altro, sono più alti del Torrazzo di Cremona.
Ecco, una matricola arrivava a Bologna, entrava in classe, dietro alla cattedra sedeva Roberto Longhi, tra i compagni di banco, a seconda degli anni accademici, c’erano Francesco Arcangeli, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Bassani, Bruno Cavallini, Antonio Rinaldi.
Arcangeli poi diventerà l’allievo prediletto di Longhi e il suo assistente. Ad Arcangeli, in una lettera spassosa, Longhi chiede di verificare che il nuovo laureando, tale Pasolini Pier Paolo, non sia un «pazzoide novecentista motorizzato». Pasolini aveva chiesto una tesi sulla Gioconda nuda di Leonardo e in subordine uno studio sulla pittura contemporanea. Respinta con perdite la prima proposta: la Gioconda nuda era nuda ma non era una Gioconda e tanto meno di Leonardo. Accettata con riserve la seconda.
Arcangeli ha avuto fior di allievi, uno è famigliare ai lettori del Giornale, si chiama Vittorio Sgarbi e firma la prefazione dei due tomi a cura di Piero del Giudice (Saggi per un’altra storia dell’arte, volume I: da Wiligelmo a Crespi e volume II: da Turner a Pollock).
Vittorio Sgarbi: «Riprendo in mano con commozione le dispense dei miei anni universitari, nella imprevedibile e sobria riproduzione a stampa, voluta dall’Accademia Clementina con il Dipartimento delle Arti visive dell’Università degli Studi di Bologna e Minerva Edizioni. Ora quelle parole indimenticabili ritrovano le loro prime matrici nei saggi che, dagli anni quaranta, su diverse riviste, Arcangeli scrisse su un’arte contemporanea che, per lui come per Roberto Longhi, era una cosa sola con l’arte antica, un organon, un unico e ininterrotto percorso, da Wiligelmo a Morandi, sempre corpo azione fantasia, nella identità territoriale della Padanìa, senza interruzioni, scadenze, distinzioni tra Medioevo e Novecento, ma per inequivocabili e implacabili tramandi. Questo apprendevamo, ed è rimasto in noi per sempre».
Roberto Longhi, per dirla in modo stringato, ha individuato e valorizzato una linea padana, che affianca le tradizionali, fiorentina e veneziana. Il campione supremo è Michelangelo Merisi. Il Caravaggio è una invenzione di Longhi, che lo recupera dopo secoli di oblio e lo fa rinascere, nel 1951, in una mostra milanese entrata nella storia della cultura mondiale.
L’allievo, Francesco Arcangeli, segue le tracce del maestro. Ma se dovessimo sintetizzare il suo gigantesco lavoro con un solo nome, faremmo subito quello di Giorgio Morandi. La monografia di Arcangeli sull’artista bolognese fa la storia così come le traversie occorse nello scriverla (Morandi era vivente e voleva avere fin troppa voce in capitolo).
Nel secondo volume, accanto a Morandi, troverete pagine illuminanti su «minori» che in realtà sono decisamente «maggiori» come Filippo De Pisis, e una rilettura straordinaria del Romanticismo.
Qui però vogliamo soffermarci su un altro passaggio, toccato da Sgarbi nella sua prefazione. Arcangeli forse non aveva capito fino in fondo cosa fosse il Sessantotto, la contestazione in buona o cattiva fede. I suoi corsi si proponevano, con rigore assoluto, di colmare quelle lacune del sapere denunciato dagli studenti. Troppo ottimismo. Troppa fiducia. Troppa sicurezza nella superiorità del sapere. Non si trattava di colmare lacune nella storia dell’arte. Il Sessantotto puntava ad abbassare la cultura al livello della massa, in nome di una malintesa democrazia, con conseguente, irrimediabile, degrado della tradizione italiana.
Ecco qua i risultati: questo meraviglioso compendio, che i nostri padri potevano tranquillamente leggere senza troppe pause per consultare un’enciclopedia, risulterà, probabilmente, incomprensibile ai nostri figli. Arcangeli? Longhi? Chi erano costoro? Nella università di massa si può ottenere una laurea senza averli mai sentiti nominare. Potremmo proseguire con altri grandi personaggi. Restiamo in zona Nave di Teseo: il recupero e ormai il salvataggio di Cesare Brandi come vogliamo valutarlo? È servizio pubblico, più e meglio della Rai. Gli ormai sempre più rari libri della Fondazione Bembo cosa rappresentano in un mondo così ignorante da ricopertinare, e quindi distruggere, i classici della Ricciardi, che erano oggetti di raffinato design, esposti come tali nei musei di mezzo mondo, Moma incluso?
Spiace dirlo ma si sono persi i fondamentali, per colpa dei «maghi» della didattica che si sono succeduti dagli anni Settanta a oggi.