Salari italiani al palo dal 1991. In trent’anni crescita dell’1%

Salari italiani al palo dal 1991. In trent'anni crescita dell'1%

Salari reali fermi da trent’anni. In Italia tra il 1991 e il 2022 la loro crescita si è fermata all’1% a fronte del 32,5% medio dei Paesi Ocse. È quanto ha ricordato ieri il Rapporto annuale Inapp basato sui dati dell’organizzazione con sede a Parigi. La situazione è peggiorata nel periodo post-pandemico in quanto dal 2020 l’andamento dei salari reali nel nostro Paese, a confrontato con il resto d’Europa, si rivela addirittura in diminuzione ra causa dell’inflazione.

L’analisi mette in discussione l’intero sistema delle relazioni industriali in Italia. Prima di approfondire le dinamiche che comprimono le retribuzioni è opportuno, tuttavia, ricordare che il periodo coperto dall’indagine è sostanzialmente quello nel quale l’Italia è entrata in un sistema a cambi fissi, adottando tra l’altro la cosiddetta «politica dei redditi», nel quale il costo del lavoro è rimasto l’unico fattore flessibile della produzione, ovviamente a tutto svantaggio dei dipendenti.

Il basso livello dei salari, osserva l’Inapp, riposa su una spirale perversa: bassa produttività-bassi salari-bassa produttività. Non è, infatti, riuscito il tentativo di legare l’aumento dei salari alla crescita della produttività in sede di contrattazione di secondo livello. Il valore aggiunto per unità di prodotto in questo trentennio è aumentato costantemente, più dei salari. Questo guadagno, tuttavia, non si è riverberato nelle retribuzioni sia per la bassa diffusione dei contratti aziendali , ma anche a causa di quello che l’istituto guidato da Sebastiano Fadda ritiene un meccanismo ambiguo di correlazione. In buona sostanza, gli aumenti di produttività sono stati conseguiti grazie all’innovazione tecnologica che ha mantenuto basso il costo del lavoro per unità di prodotto.

Ecco perché l’Inapp considera positivamente l’idea di agganciare la dinamica salariale a una sorta di tasso programmato di crescita della produttività, un’ipotesi mai presa in considerazione dalle parti sociali. Allo stesso modo, è rimasta limitata anche la diffusione del cosiddetto premio di risultato (che non costituisce un tasso di crescita del salario reale) che riguarda soltanto il 9% dei lavoratori dipendenti. Secondo l’Inapp, questo conferma l’adozione di un modello di crescita profit led (che premia il conseguimento di utili) e non wage led (ossia la crescita dei salari insieme a produttività e profitti). Quest’ultima strategia contribuisce alla crescita della domanda e sostiene lo sviluppo.

«Una prima criticità – ha spiegato Fadda – è costituita dalla distribuzione funzionale del reddito che mostra una caduta crescente della quota dei salari sul Pil e una crescente quota dei profitti che sono rispettivamente del 40% e del 60%». L’istituto non osserva particolari criticità nella fissazione di soglie minime di salario orario, proprio quelle che il Parlamento e il governo hanno bocciato, in quanto la contrattazione collettiva non è riuscita – avrebbe detto Rino Gaetano – a difendere i salari dall’inflazione. Anche queste considerazioni, però, mancano di un elemento: la forte pressione fiscale e contributiva che comprime le retribuzioni e che ha costretto ad anticipare la riforma fiscale tagliando l’aliquota Irpef del 25% fino a 35mila euro annui affinché il taglio del cuneo non venisse mangiato dalle tasse.

Un altro fenomeno che, secondo l’Inapp, «deve preoccupare i responsabili della politica economica» è il labour shortage, ossia la carenza di lavoratori che rende molto difficile coprire i posti vacanti». Un dato connesso all’invecchiamento della forza lavoro (e ai salari bassi che non incentivano gli inattivi). Se nel 2002 ogni 1.000 persone che avevano un’età compresa tra 19 e 39 anni ce n’erano poco più di 900 tra 40 e 64 anni, nel 2023 quest’ultimo valore ha superato le 1.400 unità. Se a questo si aggiunge la cronica mancanza di manodopera qualificata, lo scenario diventa ancor più preoccupante.

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