Un grand tour da spie sulle orme di James Bond

Un grand tour da spie sulle orme di James Bond

L’idea di rinverdire i fasti del Grand Tour non è mai stata lontana dai pensieri di molti scrittori britannici, sulle ali di una nostalgia per un romanticismo che le lusinghe della modernità e l’avvento del turismo di massa hanno reso via via più sfuggente.

Così, quando il direttore del Sunday Times ha proposto al già famosissimo Ian Fleming di visitare una serie di grandi città del mondo da cui l’autore avesse o avrebbe potuto trarre ispirazione per le avventure dell’agente 007, la lusinga è stata irresistibile, corroborata da un lauto contributo economico e dalla prospettiva di un assaggio diretto dello stile di vita di James Bond.

Thrilling Cities (La nave di Teseo, pagg 285, euro 20) di Ian Fleming, ottimamente tradotto da Andrea Carlo Cappi, uno dei massimi esperti italiani di romanzi di spionaggio, raccoglie i resoconti di quei viaggi. Fleming, in grande spolvero, non fa sentire la mancanza del suo eroe, tra siparietti sarcastici e aneddoti piccanti, conditi da consigli pratici su dove alloggiare, mangiare e cercare svago. Naturalmente, nello stile di James Bond, quindi per le tasche di pochi.

Oggi, il candore con cui Fleming annuncia che sta per visitare uno degli immancabili luoghi di malaffare dell’ultima città in cui sia approdato gli varrebbe più di una lavata di capo. Il retaggio colonialista della madrepatria inglese e un certo maschilismo di fondo sono figli di un mondo in via d’estinzione. Ma, al tempo, era difficile immaginare di poter visitare Hong Kong, Macao e Tokyo senza subire il richiamo di una bisca, di una fumeria o di un salone di massaggi: «un po’ come andare dal dentista. Più piacevole, naturalmente». O di passare da Las Vegas senza fare una puntatina al casinò: Fleming ci regala addirittura un prontuario di consigli per un azzardo assennato. Chicago è la capitale americana del crimine e un pellegrinaggio in luoghi come il garage in cui si è consumata la strage di San Valentino o il cinema davanti a cui è stato ucciso John Dillinger non può mancare. Invece, a «New York, l’unico modo per trovare gentilezza è comprarla». Già, il paternalismo con cui Fleming punge un’America a suo dire un po’ tronfia si stempera in un’ironia solo all’apparenza bonaria. Altrimenti, non si spiegherebbe la stilettata con cui liquida un certo turismo attempato a Honolulu come «fastidiosa petulanza tipica dei pensionati americani».

Un viaggio che si rispetti ha bisogno di un timoniere affidabile, un Virgilio appassionato. Come nostro accompagnatore, ho scelto Jeffery Deaver, la cui passione per Ian Fleming è di lunga data. «Durante la cerimonia di premiazione dello Steel Dagger Award, attribuitomi per Il Giardino delle Belve, ho tenuto un discorso di fronte ad alcuni esponenti dell’asse ereditario di Ian Fleming, citato come mia grande ispirazione. E così mi è stato chiesto se mi andava di scrivere un romanzo della serie. Ne è nato Carta Bianca. Quanto a Thrilling Cities l’ho letto da adolescente. Vivevo nel Midwest e iniziavo ad accarezzare il sogno di scrivere. L’idea che Bond viaggiasse per le sue avventure e Fleming per i suoi articoli mi ha fatto venir voglia di girare a mia volta il mondo. Le lucide analisi che Fleming fa delle città di cui parla sono all’insegna dell’umorismo. Con il tempo, le avrei viste tutte, a parte Hong Kong, Macao e Honolulu.»

Chissà se concorda con Fleming che negli alberghi si possono fare incontri interessanti. «Qualche persona famosa in qualche albergo l’ho conosciuta. Ricordo di aver incontrato in un hotel di Fairfax, Virginia, l’attore James Earl Jones con il quale ho avuto una splendida conversazione sul cinema e sulla vita a Hollywood. Non credo di aver mai incontrato esponenti di spicco della mala, però ho vissuto non lontano dalla casa del boss Sam Giancana, nei dintorni di Chicago.»

Deaver ha sempre detto di preferire il James Bond dei libri. Cosa può avere di così diverso da quello dei film? «Tante cose. I libri erano minimali, concisi, ridotti all’osso. Il personaggio di Bond non è per niente il supereroe che il cinema ha consegnato agli annali. Bond era un sicario, come indica il numero 00, nonostante i servizi segreti britannici sostengano ancor oggi di non fare uso di uccisioni mirati. A Bond ammazzare su commissione non piaceva, ma era il suo mestiere e, dopo aver portato a termine un incarico, aveva forti sensi di colpa. Di effetti speciali ce n’erano pochissimi e la sua automobile non era munita di mitragliatrici, però disponeva di una targa girevole, un espediente molto astuto. Non sono un fan dei film, anche se i primi non mi dispiacciono. Soprattutto 007, dalla Russia con amore.»

Jeffery Deaver racconta metropoli (New York, in particolare) e città di provincia nelle sue due serie di maggior successo, quella di Lincoln Rhyme, apertasi con Il collezionista di ossa, e quella di Colter Shaw (di cui è da poco uscito Tempo di Caccia). «Sono curioso per natura. Ho sempre desiderato scrivere, ma non credo di essere nato con un talento speciale per la scrittura. Amo scrivere ma devo impegnarmi a fondo. Però, sono nato con una curiosità naturale per i luoghi e ho capito subito che avrei voluto viaggiare. Per me le città sono veri e propri personaggi. Mi piace coglierne l’anima. Per esempio, Praga la preferivo decisamente prima della caduta del muro. Oggi la città si è occidentalizzata.

Bond è sinonimo di esotismo e avventura. Cosa significano per Deaver? «Qualcosa di lontano da noi, qualcosa di diverso da ciò con cui siamo cresciuti. Per esempio, la città di Sydney, in Australia, è splendida, ma è molto simile alla mia Chicago e, dunque, nessuna delle due è esotica. Melbourne, Perth e Adelaide, invece, sono diverse e, dunque, hanno un che di esotico. Mi piacerebbe andare a Mosca, dove non sono mai stato. Data l’attuale situazione politica, non ci andrò e non andrò in altri posti che non ho ancora visitato, come Israele e India. Alla faccia dell’avventura! In India i miei libri sono letti, ma è un viaggio lunghissimo».

I lettori si immedesimano a tal punto nelle storie dei loro autori preferiti da convincersi che la vita dello scrittore debba essere avventurosa come quella dei suoi personaggi. Ian Fleming lo dice a chiare lettere nella prefazione di Thrilling Cities, avvertendo il lettore che le città di cui sta per parlare gli hanno offerto spunti, non necessariamente avventure. Quanto a Deaver, non ha mai fatto mistero di considerarsi una persona ordinaria. «La mia vita è normale. L’eccitazione la traggo quasi tutta dalle storie che scrivo, standomene seduto nel mio ufficio in penombra insieme ai miei cani. Perché è fantastico scrivere storie che il prossimo trovi eccitanti. Ciò detto, qualcosa di ardito l’ho fatto. Ho sciato su piste nere, ho guidato auto sportive a 300 all’ora, sono sceso fino a 60 metri di profondità nell’oceano, ho svolto un addestramento militare intensivo nel deserto con tanto di munizionamento ordinario. In quanto vittima di uno stalker, ho pensato che quelle nozioni potessero tornarmi utili».

Leave a comment

Your email address will not be published.