Certe condanne sono sfregi. Mettono addosso un senso di ribellione e impotenza come solo la giustizia ingiusta può fare. Ci saremmo scaraventati in aula alla lettura della sentenza pronunciata dai giudici della Corte di Assise e di Appello di Torino contro il ventunenne Alex Pompa. La notte del 30 aprile 2020 a Collegno, nel torinese, ha ucciso a coltellate il padre violento per salvare la vita alla madre durante una drammatica lite. Alex era stato assolto in primo grado per legittima difesa, ieri gli sono stati inflitti sei anni, due mesi e venti giorni e il pm aveva chiesto addirittura quattordici anni perché a suo avviso «non c’è stata legittima difesa». In un momento in cui l’Italia intera si contorce sulla tragedia di Giulia Cecchettin, i giudici condannano un ragazzo che ha evitato l’ennesimo femminicidio, della sua mamma per di più. Come se Alex (e sua madre Maria e suo fratello Loris) non fossero già annientati dagli anni di violenza e dalle circostanze che hanno portato un figlio a dover uccidere il proprio padre, a dover scegliere in un lampo tra i suoi due genitori a doversi inventare assassino, a battagliare con la vita per sopravvivere e far sopravvivere sua madre. Alex non è un assassino. È un ragazzo che dovrebbe ricominciare a vivere, che dovrebbe essere risarcito per tutto quello che ha dovuto passare prima e dopo quella notte del 2020. Maltrattamenti e soprusi e orrore. Non c’è nulla di peggio per un ragazzo e prima ancora per un bambino che avere il terrore di tornare a casa. «Alex non è un assassino», hanno cercato di spiegare la madre e il fratello.
«Incomprensibile» e «difficile da accettare» ha commentato il difensore del ragazzo, Claudio Strata, commentando la sentenza. E ha fatto riferimento alla trasmissione degli atti in procura perché si valutino le testimonianze della mamma e del fratello dell’imputato. «I due – ha osservato il penalista – erano già stati ascoltati separatamente la notte stessa del fatto. Per i giudici di primo grado erano stati considerati affidabili. I giudici d’Appello sono stati di diverso avviso. E questo è difficile da accettare». Evidentemente le dichiarazioni non sono state considerate veritiere. Nel computo della condanna i giudici hanno riconosciuto all’imputato, ad Alex, «le attenuante del vizio parziale di mente, dello stato d’ira e le generiche nella massima estensione». I parenti non si danno pace della sentenza: «Alex deve essere assolto perché ci ha salvato la vita. Se vogliamo che qualcosa cambi, se vogliamo evitare che le donne continuino a morire e che non ci siano più casi come quello di Giulia (Cecchettin, ndr), la sentenza non può essere questa» ha dichiarato Loris.
E la madre, che a questo prezzo maledirà il fatto di essere viva: «Il mio Alex non è un assassino. Ha difeso me. A questo punto mi chiedo se a qualcuno sarebbe importato davvero qualcosa se fossi stata l’ennesima donna uccisa». È una storia atroce. Ed è una sentenza che mette morsi di rabbia per la crudeltà e l’iniquità. Non resta che confidare nella Cassazione perché questa famiglia possa cominciare a tessere il suo sollievo.