Più che un’intervista è una requisitoria. Dove non si salva nessuno. Carlo De Benedetti torna sulla scena, in un colloquio con il vicedirettore del Foglio Salvatore Merlo, e sciabola a destra e sinistra. Dal salotto di casa affacciato sulle vigne di Dogliani, l’Ingegnere vede solo macerie, quelle del glorioso gruppo editoriale che un tempo lui guidava, aziende che ormai non hanno più il passo per reggere la concorrenza internazionale come Mediaset, figure sbiadite, vedi Elly Schlein, o conniventi con certi segmenti del potere, alla Maurizio Landini.
Insomma, il solito De Benedetti che si considera una spanna sopra il mondo e coltiva, sulla soglia dei novant’anni, le proprie livide ossessioni. «John Elkann – attacca implacabile – è riuscito in quattro anni a distruggere il gruppo editoriale che il principe Carlo Caracciolo, suo prozio, aveva creato in circa quindici anni. Un massacro incomprensibile nei suoi scopi». Parole pesantissime che sono solo l’antipasto: «John ha venduto tutti i quotidiani locali che andavano bene, poi ha devastato pure Repubblica che ancora si aggira fra i quotidiani italiani con la maestà malinconica delle rovine. Mi dispiace moltissimo. È straziante».
Si vede lontano un chilometro che l’Ingegnere soffre perché un tempo quell’impero era suo e dettava la linea alla sinistra e a una parte autorevole della classe dirigente italiana. Ma le stagioni tramontano, solo che De Benedetti si porta dietro i suoi avversari storici, come Silvio Berlusconi, e se ne fabbrica di nuovi. Ha pontificato per una vita, da un pulpito controverso, contestatissimo e, a voler essere cauti, fazioso, continua a farlo ora, in un contesto in cui i protagonisti sono fatalmente cambiati. «Elkann – prosegue sempre più cupo l’Ingegnere – ha comprato i giornali soltanto per coprire la deindustrializzazione degli impianti produttivi automobilistici di un gruppo che ormai è francese. Per il resto di come vanno questi giornali mi pare evidente che non gli nulla». Un’analisi spietata, come è nel suo stile, manichea, e in cui naturalmente si possono trovare anche suggestioni condivisibili, mischiate a giudizi taglienti se non velenosi. «Vogliamo contare – prosegue l’Ingegnere – il numero di interviste in cui Maurizio Landini, il segretario della Cgil, parla su Repubblica di Stellantis e della scomparsa della Fiat dal nostro Paese?».
Sono stati i suoi figli – spiega con puntiglio a Merlo – a vendere il gruppo Espresso a Elkann. E questo passaggio generazionale indirizza inevitabilmente il discorso sulla famiglia Berlusconi: «Marina è innamorata di suo padre, ha sempre avuto una sorta di venerazione per lui». I sentimenti e le ragioni del cuore. Per De Benedetti sono un velo alla comprensione della realtà: «Marina sa benissimo che Mediaset è vecchia, che non reggerà la concorrenza delle grandi piattaforme internazionali come Netflix. Eppure non vende perché quella è la creatura di suo papà. Anche se forse, guardi, è anche vero che non ci sarebbe nemmeno a chi vendere perché probabilmente oggi non c’è nessuno che se la compra quell’azienda. E finché fa utili, e Mediaset ancora ne fa, per la famiglia Berlusconi vendere non avrebbe molto senso».
Poi, l’ingegnere ricorda l’ultima conversazione con il Cavaliere, due giorni prima della sua scomparsa: «Sapevo che stava male e lui, pur affaticato, al telefono mi snocciolava una tiritera sul partito liberale di massa che aveva costruito». Insomma, quella è stata una telefonata di congedo che non modifica la storia di un duello andato avanti, come in un celebre racconto di Conrad, tutta la vita e che anzi De Benedetti allunga ancora: «Questo non cambia niente di ciò che penso della sua influenza negativa, sul Paese e sulla politica». «Si permette di farneticare sul futuro di Mediaset – replica Marina Berlusconi – Voglio rassicurarlo: ciò che ci guida nelle scelte per le società del gruppo è la loro solidità, le strategie chiare, le ottime prospettive per il futuro». Lui di futuro non ne vede più nemmeno per la sinistra: «Pensavo che Schlein fosse un cambiamento vero, non il modo di Dario Franceschini per stare al potere. Il Pd mi sembra un partito esangue. Mi ricorda la Dc alla fine della sua parabola».