Quando il fascismo era anti-tedesco

Quando il fascismo era anti-tedesco

Nel 1925 vennero stipulati in una ridente cittadina svizzera trattati e convenzioni, indicati complessivamente come «Patto di Locarno», fra Germania, Francia, Belgio, Gran Bretagna e Italia. Si trattò di un evento importantissimo: esso segnò il passaggio, nelle relazioni internazionali, da una situazione di forza delle potenze vincitrici della Grande Guerra che avevano potuto imporre la pace a un regime «contrattuale» che vedeva coinvolta la Germania abilitata a negoziare e accettare liberamente le disposizioni territoriali del trattato. Non a caso, a partire da allora, la Società delle Nazioni cominciò ad acquistare prestigio e autorità morale, mentre prima aveva avuto vita grama perché percepita come «sindacato dei paesi vincitori».

Iniziò, anche, allora, la stagione delle conferenze internazionali su temi come il disarmo o i debiti di guerra. Il Patto di Locarno significò, così, la fine del «dopoguerra» e l’inizio di una fase di «stabilizzazione» internazionale: Belgio e Francia, da una parte, e Germania, dall’altra parte, si impegnavano a mantenere i confini stabiliti a Versailles, mentre Gran Bretagna e Italia fungevano da garanti esterni. Sotto tale profilo esso ebbe importanza anche per l’Italia perché segnalò l’opportunità se non la necessità di rapporti sempre più stretti con gli inglesi.

Per qualche tempo, la politica estera italiana dopo l’avvento del fascismo, non aveva subito, se non nel «tono», grandi variazioni di rotta: Mussolini ne aveva assunto la guida con l’interim degli Esteri, ma l’azione diplomatica del governo non si era discostata dalle direttrici del passato grazie ai consigli e all’influenza del segretario generale del ministero degli Esteri, Salvatore Contarini, diplomatico di carriera e di tradizione risorgimentale il quale considerava essenziale l’amicizia con la Gran Bretagna.

Contarini si dimise nel marzo 1926, qualche mese dopo il Patto di Locarno, anche come reazione al processo di pur discreta fascistizzazione della diplomazia italiana. Dino Grandi, allora sottosegretario agli Esteri, non assegnò più ad alcuno l’incarico di segretario generale degli Esteri: l’abolizione della più importante carica tecnica della «carriera» esprimeva la volontà di togliere ogni potere decisionale a quella diplomazia di stampo liberale della quale, pure, il fascismo si era servito e si stava servendo.

Al decennio compreso fra l’ottobre-dicembre del 1925 e l’aprile del 1935 è dedicato il secondo tomo dell’opera di Renzo Menoni, La politica estera italiana fra le due guerre: 1918-1940. Dai Trattati di Locarno alla Conferenza di Stresa (Pacini Editore, pp. 1160, euro 48): un lavoro puntuale e analitico, di agevole consultazione. Un momento significativo fu rappresentato dalla nomina di Grandi a ministro degli Esteri nel 1929. Questi portò nella gestione della politica estera una visione molto pragmatica, avulsa da ogni pastoia ideologica e pronta a cogliere le migliori opportunità per il proprio paese. Così, egli suggerì una politica di pace, disarmo, collaborazione con la Società delle Nazioni e le potenze democratiche. Era convinto che l’Italia sarebbe diventata arbitro dello status quo europeo se avesse saputo barcamenarsi facendo valere il suo «peso determinante» nei rapporti internazionali. Questa linea Grandi la teorizzò, appunto, come politica del «peso determinante», traducendo così in maniera sintetica ed efficace una concezione «machiavelliana» delle relazioni fra Stati.

In seguito, sembra che Mussolini dopo avergli tolto la guida degli Esteri e averlo nominato ambasciatore a Londra abbia dichiarato che Grandi «aveva sbagliato tutto» praticando «una politica pacifista e societaria», facendo «l’ultra-democratico e il superginevrino» e finendo per portare il paese su un binario morto. In proposito Menoni fa notare come, in realtà, egli avesse di fatto condiviso le scelte di Grandi: se così non fosse, non si capirebbe il motivo per il quale egli aveva occupato ininterrottamente la poltrona degli Esteri dall’ottobre 1922 al settembre 1929 e, addirittura, stabilito la propria sede a Palazzo Chigi presso il ministero degli Esteri.

Il periodo trattato nel volume di Menoni coincide in gran parte con quello che vide Grandi impegnato in prima persona in un ruolo apicale, prima come sottosegretario e poi come ministro. Fu infatti solo nel 1932 che il Duce decise di allontanarlo dalla guida degli Esteri. Peraltro l’avvicendamento non implicò grandi cambiamenti nelle direttrici di politica estera. Si registrò, è vero, un mutamento di «stile» con un più accentuato tono fascista e una maggiore caratterizzazione ideologica, ma i principi cui si era ispirato Grandi continuarono a ispirare il suo successore: Mussolini infatti mantenne una sostanziale equidistanza tra Francia e Germania sì da lasciare all’Italia spazio di manovra. Insomma, portò avanti un programma ambizioso e difficile impostato, pur sempre, sull’idea di una politica del «peso determinante» nel quadro di un «ancoramento» dell’Italia al sistema di sicurezza europea creato con i trattati di pace: ciò nella convinzione che le spettasse un ruolo di «grande potenza», responsabile e d’ordine, consapevole dei pericoli incombenti sull’Europa e sulla necessità di tenerli sotto controllo. In altri termini, Mussolini, almeno fino alla Conferenza di Stresa dell’aprile 1935, condivise con Francia e Gran Bretagna una linea antitedesca per evitare che da parte della Germania, ormai hitleriana, si tentasse di modificare o violare il Trattato di Versailles. Poco prima c’era stato, per esempio, il tentativo di Anschluss, cioè di annessione dell’Austria di Dolfuss da parte della Germania, e Mussolini aveva reagito con fermezza. Anche a Stresa egli si mostrò rigoroso, ben più della Gran Bretagna, nel voler imporre ai tedeschi il rispetto degli obblighi in materia di riarmo, indipendenza dell’Austria, smilitarizzazione della Renania. In seguito, com’è noto, tutto cambierà nei rapporti fra Italia e Germania. La guerra per la conquista dell’Etiopia spingerà l’Italia in una situazione di isolamento diplomatico che finirà per gettarla nelle braccia della Germania. Con tutto quello che ne seguirà: l’alleanza politico-militare e il disastro.

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