Colpire proprio quando la fregola dello shopping assomiglia a un riflesso pavloviano, irrefrenabile. Ergo, nel giorno del «Black Friday» trasformandolo in un venerdì nero per Amazon. Con l’arma antica – e perciò ormai spuntata, a detta di qualcuno – dello sciopero. Parafrasando Marx, verrebbe quindi da dire «Lavoratori di (quasi) tutto il mondo, unitevi!» davanti al collettivo incrociar di braccia di ieri, in 30 Paesi, di una parte degli 1,5 milioni che Mister Jeff Bezos tiene a libro paga. In Europa, dall’Inghilterra alla Germania, dalla Francia alla Spagna e fino all’hub italiano di Castel San Giovanni, operai e facchini, imballatori e speditori hanno preso parte allo «strike» che ha le proprie radici nella campagna di mobilitazione «Make Amazon Pay» («Facciamo pagare Amazon»), indetta dal sindacato Uni Global Union e a cui hanno aderito anche associazioni come Greenpeace a Tax Justice Network.
Al di là del solito minuetto stucchevole sulle cifre di partecipazione allo sciopero (l’86% dei lavoratori piacentini ha timbrato il cartellino, sostiene Amazon; 50-60% di astensioni dal lavoro, a detta di Cgil-Cisl e Uil), quel che conta è che lo slogan scelto disvela le ragioni principali della protesta, riconducendo il tutto a quella sorta di «tattoo» che il colosso di Seattle ha sulla pelle fin dalla nascita: pagare poco chi vi lavora. Un vizietto, accusano i dipendenti, diventano colpa intollerabile di fronte agli utili che dai tempi del Covid ne stanno irrorando le casse, in cui nel solo terzo trimestre sono affluiti quasi 10 miliardi di dollari (il triplo dell’anno prima). Di fronte alle richieste di adeguamento dei salari, il gruppo ha però già risposto picche. Braccino corto, cortissimo, per i sindacati, ma non per la regina dell’e-commerce. Il motivo? Si può condensare in un «abbiamo già dato», concetto che la multinazionale articola così: «La retribuzione di ingresso prevista dal contratto del commercio – si legge in una nota – è pari a 1.655,98 euro (lordi, ndr). A partire dal primo ottobre 2023, la retribuzione di ingresso a Castel San Giovanni è stata portata a 1.765 euro, cioè circa il 7% in più rispetto a quanto previsto dal contratto nazionale». Un ritocco che, oltre a non riguardare gli altri magazzini dove si applicano le condizioni del Ccnl dei trasporti, ha avuto come risposta tre scioperi, spalmati fra ottobre e novembre.
Ma la vil pecunia (fra le richieste anche buoni pasto più sostanziosi) non è il solo motivo delle proteste. In cima alla lista ci sono anche i rischi per la salute. «Decine e decine di lavoratori soffrono di problemi muscolo scheletrici – spiega Beatrice Moia, che lavora in Amazon da 10 anni – . Il nostro lavoro è ripetitivo e i ritmi sono faticosi». Poi, altri due nodi da sciogliere: la scarsa sicurezza sui posti di lavoro, accusa che Amazon respinge ricordando i «circa 7 milioni di euro» investiti e le «oltre 400mila ore di formazione» assicurate lo scorso anno in Italia; nonché – e ciò spiega l’adesione di Greenpeace – il ruolo inquinante recitato dalla multinazionale per aver aumentato le emissioni di CO2 del 18% nel 2022. Infine, seppur la creatura di Bezos non sia più considerata quella sorta di mostro capace di far inorridire, anni fa, tanto Amnesty International quanto gli ispettori del lavoro, i sindacati denunciano ancora l’abuso delle contestazioni disciplinari, le pressioni psicologiche e i ritmi di lavoro scanditi dagli algoritmi. Per loro, Amazon è rimasta al 1984 immaginato da Orwell.