Yannick Noah, l’ultimo re francese del Roland Garros

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Ha le piante dei piedi incrostate di polvere rossa e l’anima finalmente leggera. Cammina scalzo sul Chatrier, come un sovrano che prende confidenza con gli alloggi. In sottofondo il rumore scomposto che si leva dalla folla accorsa per assistere al Roland Garros. Il trofeo più atteso, quello che nessun francese ha più vinto dal 1946 e che resta appeso lì, come una sorta di slogatura emozionale che non si ricompone. Come una promessa cronicamente tradita. E invece oggi, in un placido giorno di giugno del 1983, c’è riuscito lui. Uno che sfoggia i dread e si allena con magliette tappezzate dalle facce dei suoi idoli rock. Uno cresciuto a Yaoundé, in Camerun, da madre bianca e padre africano. Uno che si chiama Yannick Noah.

Eppure le sue ambizioni sembravano sdentate. Per spezzare quell’asfissiante sortilegio serviva battere lo svedese Mats Wilander, un trituratore seriale di traguardi, vincitore su questa stessa terra rossa soltanto un anno fa. E poi c’era la iattura aleggiante di quella maledizione. Come poteva spuntarla Noah? Malgrado questo la Francia di Mitterand si era aggrappata tutta a quel ragazzo ventitreenne che, sgomitando fino alla finale, aveva autorizzato il sogno. E pensare che, poco prima del torneo, si era confidato con un amico: “Lascio il tennis, voglio dedicarmi alla musica”.

Carriera che poi si sarebbe stappata, ma intanto Yannick aveva unificato un paese prima ancora di scendere in campo. Lo tifava la gente che affollava le banlieue così come la ricca borghesi stravaccata negli atolli più patinati della nazione. “Certo poteva tagliarsi quelle treccine”, mormorava qualcuno. “Ma chissenegrega, deve giocare a tennis”, lo rintuzzavano altri. Così lo sport diventava, ancora una volta, malta che incollava insieme le persone. E tutti quanti esplodevano e gridavano a ugola spiegata dopo quella prima sfavillante e la risposta spedita fuori dallo svedese.

Quarant’anni fa la Francia intera si riuniva intorno al campione più a lungo atteso, sorprendendosi a pescarlo nel riflesso di un ragazzo abituato a sentirsi libero, scisso a metà tra l’anelito sportivo e quelle pulsioni da artista maledetto. Tirava tardi, Noah, ritrovandosi con gli amici di sempre ad ascoltare oppure a fare buona musica al “Bus Palladium” di Pigalle, il locale dove erano di casa David Bowie e Serge Gaingsbourg. Quando finalmente rientrava, fuggiva dal frastuono parigino per rifugiarsi nella vicina campagna. Nella sua stanza con un muro dipinto di nero, come quella di Jimi Hendrix, disegnava con la mente traiettorie tennistiche e musicali.

In seguito avrebbe venduto 6 milioni di dischi con questo secondo fiotto della sua complessa anima. Intanto però poteva godersi quell’abbraccio e i complimenti di Wilander, che in seguitò dichiarò: “Sono riconoscente a Yannick per quella sconfitta, l’unica che non rimpiango. Mi ha insegnato uno sguardo diverso sulla vita. Sono stato quasi felice di perdere“.

A piedi nudi sul Chatrier ora Noah improvvisa ancora qualche scambio. Stasera, e ancora a lungo, sarà il francese più amato di sempre.

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