“Ricordati di non dimenticare”: la recensione del libro di Alberto Caprotti

"Ricordati di non dimenticare": la recensione del libro di Alberto Caprotti

Esiste, senza dubbio, un immaginario romantico legato alla professione del giornalista. Pur con l’avvento del digitale e della reinvenzione dell’informazione, la figura del giornalista rimane avvinto a un ideale quasi eroico. Ce lo immaginiamo così, ricco di parole e di curiosità, capace di destrutturare la realtà per raccontarla, sempre pronto a gettarsi in strada per seguire l’ultimo caso di cronaca. È, appunto, un ideale romantico e, spesso, inesatto. Alberto Caprotti, nel suo ultimo libro dal titolo Ricordati di non dimenticare, fa a pezzi questi luoghi comuni: un giornalista “che non ha memoria”, che si getta nella professione prima ancora di essere assunto, che capisce in fretta che “stare per strada non era la mia strada”. Basterebbero già questi pochi elementi a svelare il vero punto forte di questo libro edito Edizioni Slam: l’onestà.

Ricordati di non dimenticare: un libro impossibile da mettere giù

Nel suo libro, Caprotti racconta e si racconta con una sincerità quasi disarmante: non solo smantella certi preconcetti sul suo lavoro, ma ne racconta anche il privilegio, la possibilità di poter sostare per più trent’anni nella stessa redazione, di continuare a fare un mestiere che ama, anche a costo di sentire gli altri dire che, di fatto, chi fa il giornalista lo fa perché non ha davvero voglia di lavorare. L’autore prende di mira pregiudizi, luoghi comuni e immaginari e li aggira o li aggiusta, li veste di verità e onestà. Come fa ad esempio nel descrivere la figura del lettore, una “belva” feroce che non perdona niente, mai. Tuttavia, invece di ergersi a difensore della cultura o innalzarsi al di sopra del “popolo”, Caprotti riconosce una verità scomoda ma ineluttabile: di fatto, ha sempre ragione il lettore. Soprattutto quando il giornalismo passava inevitabilmente per la carta stampata e l’informazione si pagava. Un lettore che paga per leggere ha il diritto di esigere il meglio o, almeno, quello che secondo lui rappresenta il modo migliore per raccontare una storia. E Caprotti ne è consapevole, come ne è consapevole in veste di autore di Ricordati di non dimenticare: non si racconta come un maestro del suo mestiere, come una firma importante di un grosso quotidiano. Si presenta invece come un uomo che ha “più passato che futuro”, che racconta aneddoti di camere condivise con sconosciuti all’inizio della carriera, di professori di italiano intransigenti, di attentati scoperti al telefono e di cappotti indossati all’inizio della carriera per fuggire dalle “retate” dell’Ordine dei Giornalisti quando si era solo “abusivi” nelle redazioni. Questi racconti Alberto Caprotti li fa con uno stile che corre fluido sulla pagina, un po’ inchiesta giornalistica e un po’ memoir, un viaggio attraverso momenti cardine della nostra cultura – la morte di Lady Diana o della regina Elisabetta, ad esempio, o il mondiale del 2006 – che passano però attraverso la vista e i sensi di un uomo che ha continuato a fare un lavoro che ama, miscelandolo al progresso che si è instaurato in un mestiere ormai diverso e alla nostalgia per l’odore del piombo e di quel mondo “nero di inchiostro, grasso di fatica, sporco di vita.”.

È difficile cercare di catalogare cosa sia Ricordati di non dimenticare: per le leggi di mercato, secondo le quali un prodotto deve essere sempre confinato entro limiti che lo rendano riconoscibile e vendibile, il libro di Alberto Caprotti è tante cose insieme. È un’autobiografia, naturalmente, ma è anche il racconto di tante vite intrecciate, di sentimenti sfiorati per caso, di storie lasciate nel passato. È la storia di Mario Forte e della sua solitudine silenziosa, la storia di Jemilson, che si faceva dodici ore di volo in piedi e narrava storie con un afflato diverso rispetto a quello dei giornalisti. Ma Ricordati di non dimenticare è anche un libro che riflette sul tempo che passa, su un presente che sembra sempre più povero di passato e su un mestiere, quello del giornalista, che non esiste più, che è cambiato, che non può più nemmeno chiamarsi sogno, perché chi ha il coraggio di sognare un lavoro così precario come lo è oggi? Alberto Caprotti si dimostra un abile affabulatore, un cantastorie che dichiara di avere la memoria corta, ma che ha la mente piena di ricordi interessanti e di riflessioni ancora più affascinanti e attuali, capaci di tenere avvinto anche il lettore più scettico o meno interessato. Perché le belle storie, in un modo o nell’altro, trovano sempre il modo di farsi strada e di farsi riconoscere.

Leave a comment

Your email address will not be published.