“Il nuovo filologo dev’essere anche un po’ ispettore”

"Il nuovo filologo dev’essere anche un po’ ispettore"

Emmanuela Carbé, ricercatrice all’università di Siena, si è occupata a lungo dei metodi di archiviazione digitale per il Centro manoscritti di Pavia, diretto da Giuseppe Antonelli. Proprio a Pavia, domani si inaugura un convegno su un tema ormai cruciale, e non solo in campo umanistico: come si tutela, conserva e trasmette il sapere nell’epoca della digitalizzazione. Il titolo è «Le carte immateriali. Filologia d’autore e testi nativi digitali». L’iniziativa è curata dal Centro manoscritti. Chiediamo lumi a Carbé. Quali sono gli obiettivi del convegno? «Il convegno è stato pensato dal Centro manoscritti dell’università di Pavia, che per prima ha iniziato a conservare, accanto ai manoscritti, anche le “carte immateriali” ovvero gli “scartafacci digitali” lasciati da autrici e autori contemporanei. L’idea è riunire studiosi non solo italiani. Molti centri internazionali si stanno occupando della questione del digitale che vuol dire innanzitutto dover affrontare nuovi problemi. Sono molteplici le sfide, dalla conservazione, alla filologia, ma anche dal punto di vista legale, ad esempio».



Come si presentano le nuove acquisizioni, sono file di opere e basta?

«No, sono molte cose assieme. Non solo file delle opere ma anche materiali su altri dispositivi rispetto al pc. Le e-mail, alcune tracce sui siti web, gli status sui social network.

Quindi il filologo di oggi si ritrova davanti a un ta- ,I’ volo di lavoro spesso ibrido, in parte cartaceo, in parte digitale».



Mi fa qualche esempio?

«Al Centro manoscritti di Pavia c’è l’archivio ibrido del poeta Franco Buffoni. Ma ci sono anche Sandro Veronesi, Valerio Magrelli, Laura Pugno, Francesco Pecoraro. Ad esempio, durante il convegno ci sarà uno studioso, Federico Milone, che parlerà dell’elaborazione del romanzo Sirene di Laura Pugno. A Siena si lavora sull’archivio di Franco Fortini, ex dipendente della Olivetti. Acquistò il suo primo Mac addirittura nel 1985».

Come cambia la filologia d’autore?

«La sensibilità su questo tema è piuttosto recente. Anche gli strumenti sono da raffinare o addirittura, per così dire, da inventare. Naturalmente gli strumenti tradizionali della filologia d’autore sono e saranno sempre imprescindibili. Però ci sono sfide nuove, come ad esempio l’acquisizione di informazioni tramite metodi forensi. Si va a caccia delle tracce visibili e invisibili che gli autori lasciano sui computer».

È già stato fatto?

«Sì, in America. Ad esempio, al convegno ci sarà un intervento sul computer di Derrida. Sul suo pc sono state adottate delle tecniche forensi per acquisire più dati possibili ma anche per organizzarli in un insieme coerente».

Il concetto di archivio cambia completamente?

«C’è il problema della conservazione dei file e il fatto che nel digitale c’è una fluidità… ehm… inedita rispetto al cartaceo, quindi il concetto di archivio cambia completamente. E ciò sarà oggetto di riflessione in questi tre giorni».

Gli archivi del futuro saranno immateriali?

«L’immaterialità del digitale è solo apparente, perché poi tutto risiede nelle macchine, quindi c’è sempre uno spazio fisico in cui sono conservati i documenti».

Cambiano molto anche le competenze richieste agli umanisti?

«Questi dati hanno una complessità informatica che noi umanisti dobbiamo imparare a conoscere. Per gli studiosi sarà importante acquisire competenze trasversali per comprendere».

C’è il rischio di non avere documentazione o di averne una insufficiente, su alcuni autori che stanno a cavallo della rivoluzione informatica?

«Da una parte, potenzialmente, l’archivio digitale è caratterizzato da una quantità enorme di dati. Diventa fondamentale raffinare gli strumenti per raccoglierli e presentarli. Dall’altra è vero che quando abbiamo iniziato a usare i pc non avevamo ancora la sensibilità della preservazione del digitale».

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