La guerra fa schifo, lo vediamo ogni giorno ormai. Se adesso non si combatte direttamente sulla pelle nostra, di europei occidentali, lo dobbiamo al fatto che siamo il prodotto di conflitti terrificanti che hanno tuttavia stabilito dei limiti confinari.
Solo nelle ucronie alla Philip Dick i nazisti hanno vinto la guerra. Come ben sappiamo, nella realtà storica hanno subìto la disfatta in Russia, dopo aver spinto il fronte fino a Stalingrado (oggi Volgograd), in parte negli stessi territori dove oggi passa la linea di uno scontro assurdo.
Vasilij Grossman (nato in Ucraina nel 1905, morto a Mosca nel ’64), a quei massacri aveva assistito direttamente. Ne ha tratto spunto per una narrativa fluida e torrenziale, che va da Stalingrado a Vita e destino, romanzi pubblicati dapprima fortunosamente per via della censura sovietica, oggi sistematicamente; in Italia per le edizioni Adelphi. Esce adesso Il popolo è immortale, parte della «trilogia della guerra» (Adelphi, pagg. 288, euro 20, a cura di Robert Chandler e Julija Volochova, traduzione di Claudia Zonghetti).
Estate 1941. Fronte di Brjansk, poco dopo il confine di Bielorussa e Ucraina. L’esercito sovietico subisce un accerchiamento e finisce in una sacca. I tedeschi sembrano invincibili. L’Armata Rossa tenta una serie di ritirate. Grossman era al fronte come inviato del quotidiano dell’esercito Krasnaja zvedza (Stella rossa). Il punto di vista del suo racconto, in terza persona, è diviso fra alcuni personaggi principali, il commissario politico Bogarëv, il capitano Babadzan’jan, ma anche il contadino indomito e sempre fiducioso Ignat’ev. Evidentemente Grossman aveva il compito di sostenere la propaganda ottimistica di Stalin. La resistenza al nemico come espressione dell’indistruttibile volontà popolare. Ma la retorica da cui non è esente è di molto inferiore al respiro epico della narrazione (e infatti non manca qualche riferimento all’Iliade). A colpire è però la vivacità del racconto, ricco di descrizioni di azioni militari, ma anche di episodi della vita quotidiana, compresa quella dei civili intrappolati loro malgrado nella catastrofe. Ragione per cui il libro piacque molto al popolo dei lettori, assai meno ai vertici politici e militari, che ne avrebbero voluto una glorificazione degli ordini e delle decisioni del comando centrale. Invece Grossman riesce a trovare spazio anche per la figura del colonnello tedesco Bruchmüller, con la sua volontà di capire la mentalità del nemico, invano.
A colpire, oggi, sono però passaggi come questo: «Non erano i singoli individui a darsi da fare: il georgiano magro che spingeva le munizioni nella canna, il tataro robusto e basso che le trasportava, l’ebreo che correggeva la direzione, l’ucraino con gli occhi neri addetto al caricamento…».
L’idea di un popolo unito al di là delle differenze etniche, linguistiche, geografiche. Da rabbrividire, pensandoci adesso. Del resto, si legge anche «Non c’è né c’è mai stato sulla terra nulla di più terrificante dell’indifferenza verso un essere umano». Da provarne spavento, e da meditarci su.