Il sorprendente ristorante alla Galleria Principe di Napoli, guidato dallo chef Marco Ambrosino, propone una visione non oleografica del nostro mare, come bacino di incontro di culture. Un menu ricco di piatti che fanno riflettere e percorrono strade poco consuete, con grande ricorso alle fermentazioni e alle affumicature, ma che porta anche dritto al sapore
Napoli è una città dove accadono cose che in altre città sarebbero impensabili. Come il fatto che una galleria vicina al centro cittadino, la Galleria Principe di Napoli, a due passi dal Museo archeologico, possa restare chiusa per decenni nell’indifferenza generale. E, una volta riaperta, diventi un luogo per un’imprenditoria a forte impatto sociale. Il luogo simbolo di questa rinascita è il ristorante Sustànza, al piano superiore del bar ScottoJonno, di cui vi ho raccontato pochi giorni fa. Entrambi i locali sono ospitati in un edificio dalla storia tormentata, che è stato un café chantant e poi la tesoreria del banco di Napoli, prima del degrado di cui sopra.
Lo chef di Sustànza non è uno qualsiasi, ma Marco Ambrosino, un cuoco “politico”, nel senso che dà grande importanza all’aspetto sociale e culturale di quello che mette nel piatto, anche a costo di rinunciare a un po’ di compiacimento del cliente. Era così anche a Milano, dove ha guidato per qualche anno con grande successo di critica e di pubblico 28 Posti ai Navigli, un luogo dove metteva in atto pratiche di cucina responsabile. Ma Milano, così “posona” e narrativamente semplificatoria, pur avendolo fatto crescere molto da un punto di vista professionale, non era il luogo più adatto per il salto di qualità verso quel tipo di narrativa che lui vuole portare avanti, quella di un Mediterraneo che non sia soltanto una cartolina con i limoni, ma tenga conto del suo ruolo storico di luogo di faglia, di incontro e di scontro tra culture. Lui ci crede così tanto in questa idea di una cucina autenticamente mediterranea da aver Creato anche il Collettivo Mediterraneo, che si propone di raccontare la multiculturalità del bacino che ci ospita, la biodiversità, le esperienze di donne e uomini che hanno costruito la nostra storia come abitanti del bacino. E quindi una cucina che promuova la salvaguardia dei mari e del suolo, la pesca etica, la sopravvivenza dei produttori, degli allevamenti e dell’agricoltura sostenibile, la divulgazione delle culture del Mediterraneo.
Tutto questo si ritrova nel menu di Sustànza che è pure assai buono, visto che, come mi dice Ambrosino, “io coi miei ragazzi faccio sempre una chiacchiera in più su una cosa che non sia un soffritto. Poi certo, quel soffritto lo dobbiamo saper fare. Cucinare bene è il minimo sindacale”. Certo, non è una cucina napoletana nel senso che uno potrebbe attendersi in un ristorante a meno di un chilometro dai Quartieri Spagnoli, ma Napoli è pieno di pizzerie e di luoghi in cui mangiare “’o rraù”, basta cambiare indirizzo. Qui si praticano fermentazioni, affumicature, si esplora la storia non come elemento libresco ma come materia viva.
I percorsi sono tre: Piccolo Cabotaggio a 100 euro (5 portate), Medio Raggio a 130 euro (8 portate), Lungo corso a 160 euro (10 portate). Io ho provato alcuni piatti dell’attuale menu, rimanendo molto colpito dall’Insalata fatta con verdure crude, cotte, fermentate e conservate, nel mio caso piselli cotto alla brace, cavolo cappuccio, cavolfiore, carota, asparagi e ravanelli, in un dressing con tartufo nero e olio alle erbe e dal Consommé di verdure di stagione alcune sbiancate e altre conservate, in brodo fatto per metà con del pane e per metà con verdure fermentate con il metodo solera, rigenerato ogni giorno: quello di oggi ha già un anno. Poi l’Ostrica glassata e grigliata con maionese al prezzemolo, condita con olio al lentisco e ouzo di pane fermentato alle rose e scalogno, che riesce a trasformare in un piatto completo il blasonato mollusco.
Ogni episodio spiazza, fa ragionare, nulla passa inosservato qui dentro. Non lo Sgombro cucinato in modi differenti, con lenticchie affumicate, salsa ponzu, chimabushi al cavolo. Non il Mischiato potente (una pasta mista del pastificio dei Campi) cotto in acqua e poi passata in boule a freddo, con maionese alle acciughe, verdure sotto cenere, alici marinate e una densa salsa alle erbe e mandorle e chiusura con l’olio all’aglio orsino. Non il Cefalo poché con olio di argan, glassato con limone, cumino e miele, brodo di lische affumicato con pane al limone di arancia. Però certo il piatto della serata è per me lo Stracotto di pecora, una playlist di spunti che arrivano da ogni angolo del Mediterraneo: un Patè di fegato di pecora agnello con olio al mirto, bietola e fave grigliate, salsa chermoula e olio al mirto; il Makdous, un cetriolo in conserva, un Mojanat palestinese alle erbe e strutto di pecora; una zuppa pasquale di interiora sempre di pecora. Si chiude la parte salata con il vivifico shock dello Spaghetto cotto in un vino ossidativo, olio al ginepro e scorza di agrumi bruciati ed erbe balsamiche. Il capitolo dolci, affidato al bravo Federico Andreini, si snoda attraverso un Sorbetto alla radice di angelica con sale e olio al mirto, un trionfo di florealità con la Rosa mediterrane alla brace, con mela, rosa canina e cera d’api e una Crema di pastinaca, sorbetto di limone nero ossidato, spuma di mandorla. Servizio di alto livello. Si beve in maniera ostinato e contrario, le scelte di Stefano Petrillo non sono mai banali. Il locale è elegante, un po’ salotto anni Venti del Novecento, con una compostezza liberty e qualche tocco esotico, l’atmosfera è rarefatta.
Sustànza, Galleria Principe di Napoli XIV XVII, Napoli.
Tel. 0813795766. Aperto solo la sera dal martedì al sabato
Pan fritto, crema alle carrube e cipollotto croccante, Sandwich di chips di patata, hummus di ceci e sopra spuma di pimenton di Espelez, un peperoncino coltivato tra Francia e Spagna
Flan di prezzemolo e uova bietole miso e delle olive fermentate dallo chef, sotto un olio siciliano, danubietto alle erbe al burro fermentato, radicchio rosso in conserva di miele e aceto di mele, crema di arachidi e agrumi e un macaron
Se c’è uno chef in Italia che fa cucina politica, questo qualcuno è Marco Ambrosino, chef di Sustanza a Napoli nell’inconsueto contesto di Galleria Principe di Napoli, rimasta chiusa per decenni e ridotta a ricovero per senzatetto e oggi riaperta come cantiere di imprenditoria sociale. Qui al primo piano di quello che è stato dapprima un café chantant e poi la tesoreria del Banco di Napoli – al piano terra c’è il bar Scottojonno, a cui Sustanza è collegato – Ambrosino porta avanti la sua idea di cucina legata a quella che lui definisce la “creolità mediterranea”.
Ambrosino, che cosa vuol dire creolità mediterranea?
“Io faccio sempre questo esempio: se si scrive su Google Mediterraneo esce la foto di Diego Abatantuono nel film di Salvatores e dopo una fotografia col pomodoro, il basilico, la mozzarella. Che va anche bene, ma se si pensa al pomodoro come prodotto che arriva da lontano a far parte di questo micro-macrosistema peculiare. Ma noi tendiamo per brevità ad accorciare le cose. Io non penso che per forza tutto debba sempre essere complesso, ma nemmeno il contrario”.
C’è bisogno di un nuovo racconto del Mediterraneo?
“Io penso che mai come in questo periodo storico serva raccontare una forma del Mediterraneo che va riscritta con dei termini veri. Io penso che il racconto della cucina di questi anni abbia subito molto questa potatura orizzontale”.
In che senso?
“Le cose vengono raccontate in un modo che non corrisponde proprio alla realtà, ma il problema è che però restano scritte. Piace la favola della nonna che cucinava. E tra cento anni avremo un racconto di qualcosa che non è stato proprio così. Così fa notizia Alberto Grandi che ci dice che certe cose ce le siamo inventate l’altro ieri. Io cerco di raccontare il legame che c’è tra i popoli, questo grande momento di passaggio, senza necessariamente attingere a un linguaggio gastronomico”.
Come si può fare?
“Il mio metodo di lavoro è prendere spunto da cose che con la cucina non c’entrano nulla. Per esempio io sono un grande appassionato di antropologia, mi piace capire come funzionano le cose e anni fa facemmo un menu tutto a base di tabacco dopo che lessi della rivolta delle tabacchine di Tricase, la prima fabbrica di tabacco in Puglia a conduzione totalmente femminile, fu la prima vera rivolta delle lavoratrici nella storia, fu drammatica, ne morirono molte”.
Difficile fare una narrazione simile in questo mondo che va verso la semplificazione di tutto…
“Ma quello che racconto qui non ha necessariamente a che fare con un momento di piacere. Io metto sui social dei disegni che faccio io, una mia forma di psicoterapia, spesso per veicolare sentimenti negativi. Ma per me la grande differenza tra la cucina e l’arte è che in quest’ultima i sentimenti negativi, la rabbia, la malinconia, la tristezza, hanno dato vita ai più grandi capolavori. L’arte è spesso disturbante, nasce da un’urgenza, mentre la cucina nasce da una necessità, è un lavoro”.
E quindi la cucina deve provocare un pensiero?
“Tutte queste cose non devono necessariamente tenersi assieme, ma è il mio modo per riuscire a essere anche me oltre che me nel piatto. Oltretutto mettere qualcosa di diverso nel fine dining vuol dire riempire giornate che altrimenti, anche nel più bel ristorante del mondo, sono fatte di gesti meccanici volti al piatto da portare a tavola. Io coi miei ragazzi faccio sempre una chiacchiera in più su una cosa che non sia un soffritto. Poi certo, quel soffritto lo dobbiamo saper fare. Cucinare bene è il minimo sindacale”.
Dal punto di vista del suo percorso, che cosa le ha dato il ritorno a Napoli dopo dieci anni di Milano?
“Intanto io non sono tornato a Napoli perché non ci ho mai lavorato, ci ho fatto l’università. Io sono di Procida, ho lavorato in Campania ma non a Napoli. Io e mia moglie, che è architetto ed è di Ischia, volevamo riavvicinarci a casa, poi nostro figlio doveva iniziare la scuola elementare. Mi sono imbattuto in questo progetto, ho visto questo posto che era un cantiere ma era già questa cosa qui e ho già deciso dal primo momento. Poi sono seguiti mesi di dubbi. E le persone che mi dicevano, ma che vai a fare a Napoli. Ma in questo posto c’è tanta voglia di fare, di creare legami, di inventare luoghi e non zone da attraversare. Napoli ha un livello di autenticità più alta, almeno in questa zona, qui c’è questa voglia di mettersi assieme, di fare cose belle che a Milano non c’è”.
Ecco, Milano. Come ci era finito?
“Venivo da un breve stage al Noma e pensavo che Milano fosse la cosa più simile a Copenaghen. Ho lavorato dapprima per un pastificio in zona Sant’Ambrogio che faceva anche ristorazione, poi sono finito al 28 Posti, a cui devo tantissimo. Sono stati anni molto importanti”.
Però l’impressione è che a Milano questo suo discorso sociale e antropologico non passasse molto, si parlava di lei come il giovane e bravo chef campano…
“Quando le cose si fanno a Milano hanno sempre un richiamo nazionale e qualsiasi cosa si auto-vanifica in un discorso corrente, si perde l’autenticità. Poi Milano ha questa cosa dei quartieri…”.
Ovvero?
“Milano fa tutto in un quartiere, la cosa dura cinque anni, poi si sposta altrove. Io l’ho notato anche un po’ sulla mia pelle. La zona dei Navigli e della Darsena quando abbiamo aperto 28 posti era il centro gastronomico, poi finisce quella cosa lì e ora in via Vigevano nei locali con le canne fumarie ci aprono in negozi di scarpe”.
Secondo lei perché accade questo?
“A Milano si sta imponendo il modello per cui i grandi gruppi hanno una potenza di fuoco e aprono locali in serie a Brera che corrispondono a dei format, tutti uguali. Sei o sette anni fa andava il piccolo bistrot con i vini naturali, oggi è tutto una finta trattoria milanese. Gli altri, i piccoli, funzionano solo se sono molto bravi, reggi se sei Gianluca Ladu di Vinoir, se sei Enricomaria Porta della Concorrenza, se sei Vladimiro Poma di Silvano, osti che sono sempre là, che sono il motivo per cui uno va da loro, sicuro che anche se è da solo trova modo di parlare con qualcuno. Ma questi posti sono difficilissimi da aprire, chi può permettersi gli affitti fuori di testa di Milano?”.
E allora?
“E allora restano questi locali aperti dai Ferragamo, dai Delvecchio, da Big Mamma. Io non criminalizzo la ricchezza, ma se va avanti così la ristorazione a Milano diventa comprare una scatola di lusso e metterci qualcosa dentro”.
Però dicono che sono sempre pieni.
“Certo, funzionano. Ma il fatto che siano sempre pieni non ha nulla a che vedere con quello che si fa lì dentro, che non necessariamente ti dà qualcosa. Loro funzioneranno sempre, a noi resterà la libertà di dire la verità”.