Il magistrato: “Vi spiego perché non c’è nessuna prova contro Chico Forti”

Il magistrato: "Vi spiego perché non c'è nessuna prova contro Chico Forti"

Ribadisco la mia innocenza“. Lo ha detto Chico Forti, approdato nei giorni scorsi in Italia dopo aver trascorso 24 e 6 mesi nel carcere di massima sicurezza in Florida, in un’intervista esclusiva al Tg1. I fatti sono noti: nel 2000 l’ex surfista e produttore trentino fu condannato all’ergastolo negli Stati Uniti per l’omicidio di Dale Pike, il 42enne australiano assassinato sulla spiaggia di Sewer beach a Miami la sera del 15 febbraio 1998. Il movente del delitto, secondo l’accusa, sarebbe riconducibile alla trattativa che Forti stava intavolando con il padre della vittima, Tony Pike, per la compravendita del Pike’s Hotel di Ibiza. “Sulla scena del crimine non c’erano, come non ci sono stati neanche nel successivo processo, prove dirette a carico di Forti. Casomai, sul luogo del delitto, vi erano elementi che avrebbero potuto aprire scenari alternativi sull’omicidio di Pike”, dice alla redazione de ilGiornale.it il magistrato Lorenzo Matassa, che si è occupato della vicenda realizzando anche un libro-inchiesta.

Magistrato Matassa, il suo libro s’intitola “Chi ha incastrato Chico Forti?”. Le giro la domanda.



“A incastrare Chico Forti probabilmente è stato lui stesso. Si è incastrato quando inizialmente ha detto alla polizia di Miami di non aver incontrato Dale Pike all’aeroporto. La successiva ritrattazione è stata, poi, peggiore dell’iniziale menzogna. Questo atteggiamento gli si è ritorto contro, segnando inevitabilmente l’andamento del processo e incidendo sul giudizio finale. Ma una bugia non può essere tradotta in prova di colpevolezza. Sicuramente non lo può essere nel nostro sistema dove l’imputato ha il diritto di non rispondere e anche di mentire. Il principio, però, lo ritroviamo anche nel sistema americano. Le menzogne si inseriscono in un quadro molto più complesso rispetto al crimine che gli è stato contestato e per il quale è stato condannato all’ergastolo, ovverosia l’omicidio del giovane Pike”.



Partiamo proprio dall’omicidio di Dale Pike. Il 16 febbraio viene ritrovato senza vita su una spiaggia di Miami beach. Accanto al cadavere ci sono i suoi effetti personali, tra cui una scheda telefonica. Dagli accertamenti sulla scheda risultano tre contatti, nel giorno precedenti al delitto, tra Pike e Forti. Quanto basta alla polizia di Miami per riversare sull’ex surfista italiano i sospetti. Lei cosa pensa al riguardo?



“Ad onor del vero, bisogna fare una precisazione. Non c’erano state tre telefonate tra Forti e Pike il giorno antecedente all’omicidio, come viene erronamente riportato su alcuni articoli di stampa. C’erano stati tre tentativi di chiamata, ma tra i due non era intercorsa alcuna conversazione che fosse riscontrabile sulla scheda rinvenuta. Tuttavia la polizia di Miami ritenne che questo fosse un elemento indiziante nei confronti di Forti. Quando quest’ultimo fu convocato dagli investigatori come persona informata sui fatti, in realtà era già sospettato, anzi l’unico indiziato per il delitto. Ma la polizia si guardò bene dall’incriminarlo in modo formale e fornirgli, da subito, un’adeguata difesa. Ad ogni modo, sulla scena del crimine non c’erano, come non ci sono stati neanche nel successivo processo, prove dirette a carico di Forti. Casomai, sul luogo del delitto, vi erano elementi che avrebbero potuto aprire scenari alternativi sull’omicidio di Pike”.



Quali?



“Il fatto che il cadavere sia stato trascinato per diversi metri dalla battigia verso un anfratto boscoso della spiaggia, denudato e adagiato in un certo modo, mi induce a pensare che sulla scena del crimine fosse presente più di una persona. Inoltre, fu trovato un guanto sotto la testa della vittima su cui furono individuate tracce genetiche corrispondenti a una mano femminile. Chiaramente, le mie sono solo eventuali ipotesi”.




Per i giudici, il movente dell’omicidio sarebbe riconducibile alla trattattiva relativa alla presunta “compravendita-truffa” del Pike’s Hotel di Ibiza tra Forti e Tony Pike, il padre della vittima. Ritiene sia una valida argomentazione?



“Se fosse vera l’ipotesi delle truffa, probabilmente sì. Ma il punto è che l’accusa di truffa e circonvenzione di incapace fu archiviata dalla stessa accusa. Semplicemente Forti non aveva alcun interesse ad uccidere il giovane Dale. L’accusa nel corso del processo ha percepito la debolezza di un delitto senza movente e ha più volte spostato l’attenzione della giuria sulla possibilità di un movente apparente, ovvero un qualcosa che si spiega solo nella mente di chi agisce circa l’utilità del gesto. È movente apparente, ad esempio, quello di chi uccide per rapina salvo poi ad accorgersi che la vittima non possedeva alcun denaro. È bene precisare, inoltre, che Tony Pike (il padre della vittima) possedeva solo il 5% di quote dell’hotel Pike’s; il restante 95% apparteneva a una società offshore a sua volta posseduta da altre tre società offshore. Questo vuol dire che non aveva alcun titolo per trattare con Forti, o qualunque altro ipotetico acquirente, per la vendita della struttura. Invece fu il tedesco Thomas Knott a sottrarre una cospicua somma di denaro all’anziano Pike. Poi Knott accettò una condanna patteggiata per truffa ai danni di Anthony Pike”.



Riguardo a Thomas Knott, è una figura su cui si addensano molte ombre. Secondo lei, potrebbe aver avuto un ruolo?



“È una domanda a cui non posso rispondere perché non dispongo di elementi tali da poter indicare una direzione certa.

Per certo Knott, sentito dagli inquirenti, fece riferimento alla pistola calibro 22 – la stessa arma con cui fu ucciso Dale Pike – che era stata sì acquistata con una delle carte di credito di Forti, ma era nella sua disponibilità. Sta di fatto che Knott diventò cooperatore testimoniale nel processo contro Forti e uscì di scena, senza che la difesa ebbe mai la possibilità di approfondire davanti alla corte il suo equivoco ruolo. Che Knott avesse gravi responsabilità nella vicenda non è certo un mio convincimento, ma un dato obiettivo”.

La vicenda giudiziaria di Chico Forti sembra essere legata all’assassinio di Gianni Versace. L’ipotesi è che il documentario prodotto da Forti sul suicidio sospetto del presunto assassino dello stilista italiano, Andrew Cunanan, avrebbe contrariato la polizia di Miami. Crede che i due casi siano collegati?



“Se Forti fosse stato incastrato perché ha svelato qualche verità scomoda sul finto suicidio di Andrew Cunanan, allora potrebbe esservi una correlazione. Ma questa argomentazione non è stata portata a processo neanche dalla difesa di Forti. La vicenda Versace è solo un antefatto importante, ma solo un antefatto.

Non fu mai portata davanti alla corte di Miami perchè tutti (pure la difesa) ritennero non potesse collegarsi in alcun modo all’omicidio del giovane Dale Pike”.




Riguardo al verdetto, Forti è stato condannato condannato all’ergastolo “al di là di ogni ragionevole dubbio” per l’omicidio di Dale Pike. Da magistrato, ritiene che davvero non vi fosse alcun margine di dubbio nella ricostruzione fatta dall’accusa?



“La formula con cui Forti è stato condannato dovrebbe farci riflettere. Come spiego anche nel mio libro, il ventaglio del ragionevole dubbio è molto ampio in questo processo. E, poi, in generale, il concetto di ragionevolezza apre scenari più vicini alla filosofia teorica che al Diritto. Chi stabilisce cosa è ragionevole? In cosa si traduce il dubbio nella sostanza giuridica? E infine, chi definisce la soglia dell’aldilà?”.



Secondo lei, ci sono i presupposti per chiedere una rimeditazione del processo?



“Nei confronti dell’imputato Forti è stato emesso un verdetto non una motivata sentenza. Il sistema americano è diverso da quello italiano. All’esito del processo, non vengono fornite motivazioni scritte relative alla decisione del giudice. Diventa difficile, se non impossibile, ricorrere in appello, come accade invece in Italia. Quindi, rispondendo alla sua domanda, direi di no. Sicuramente non vi potrà essere una rimeditazione del giudicato in Italia dove un processo contro Forti non si è mai neppure iniziato”.



L’opinione pubblica si divide tra colpevolisti e innocentisti. Lei da che parte sta?



“Da nessuna delle due parti. Io sono fazioso perché cerco di stare sempre dalla parte della Giustizia. Ci sono ampi margini di dubbio. Quello stesso dubbio che la corte americana ha ritenuto di avere superato con la sua decisione. La storia di Chico Forti dovrebbe indurci a una riflessione sul metodo più che sul merito della vicenda. In che misura la giustizia può ancora funzionare come strumento di ricerca della verità ed esercizio della ragione?”.

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