I fatti e le opinioni andrebbero separati, ma quando i fatti corrispondono a delle opinioni si fa complicata: vale per il giornalismo e dovrebbe valere per l’attività inquirente, tantopiù per un indagato che si chiama Mario Mori e che svolge la professione di generale in pensione nonché di inquisito in forma permanente ed effettiva. Stiamo parlando dell’inventore del Ros su suggerimento di Giovanni Falcone nonché dell’uomo che catturò Totò Riina: e questi sono fatti. Ma è un fatto anche questo: che il generale Mori, ex comandante del Ros ed ex direttore del Sisde, ora è indagato a Firenze nel fascicolo sulle presunte «complicità esterne» delle stragi del 1993; l’accusa, in lingua italiana, è di non aver impedito le stragi, e questo, attenzione, dopo esser già stato processato per 11 anni con l’accusa di aver «trattato» per farle cessare (le stragi) nel famigerato e fallimentare processo sulla presuntissima «trattativa» tra Stato e mafia. In linguaggio tecnico, il generale Mori è inquisito per gli articoli 422 (strage) e 110 (concorso) e 416 bis (associazione mafiosa) nonché 270 (associazione con finalità di terrorismo ed eversione).
Altri fatti: il generale ha ricevuto l’invito a comparire il 16 maggio, nel giorno del suo 85mo compleanno, e la procura pretendeva che si presentasse a Firenze proprio nella ricorrenza dell’attentato a Giovanni Falcone, il 23 maggio, cioè domani: è stato chiesto un rinvio. Ancora: a render nota l’ennesima indagine che lo riguarda, ieri, è stato lo stesso Generale con un lungo comunicato (dove si percepisce la mano del suo avvocato Basilio Milio) dopodiché un giornale, Il Fatto Quotidiano, ha sparato la notizia online immediatamente dopo, come se l’articolo fosse già stato pronto e confezionato. Altro fatto: Mori non è solo indagato per le stragi di Firenze e Roma e Milano del 1993, ma anche per il fallito attentato allo stadio Olimpico del 1994. Ancora: le vicende del caso sono già state analizzate nel corso degli ultimi 25 anni da varie magistrature (compresa quella fiorentina) e nondimeno nei processi in cui è stato coinvolto Mori, a dimostrazione che in Italia si può essere processati infinite volte per lo stesso reato; nel caso del Generale, parliamo di cinque pronunce assolutorie più la Cassazione (aprile 2023) secondo la quale «nelle sentenze di primo e secondo grado è stata adottata una chiave storiografica, concentrandosi su fatti spesso poco o per nulla rilevanti da un punto di vista probatorio». Altro fatto: Mario Mori ha 85 anni ed è difficile dargli torto quando dice, ora, che «questo disegno ha come unico obiettivo quello di farmi morire sotto processo», disgrazia scampata per un pelo al generale Antonio Subranni che è morto in marzo a 92 anni dopo l’assoluzione per l’inesistente «trattativa». In quella sentenza peraltro si riconosce che la condotta del generale Mori «ebbe come finalità precipua e anzi esclusiva quella di scongiurare il rischio di nuove stragi» e che il medesimo aveva «come obbiettivo quello di porre un argine all’escalation della violenza mafiosa che rendeva più che concreto il pericolo di nuove stragi», insomma secondo i giudici Mori fui mosso «da fini solidaristici e di tutela di un interesse generale e fondamentale dello Stato». Ora, invece e qui siamo alle opinioni, anche se piacerebbe definirle altrimenti si scopre che l’aver indagato mentre la politica e la magistratura brancolavano nel buio, in quegli anni terribili, secondo i suggestivi pm fiorentini equivarrebbe a «non aver impedito» gli eventi stragisti.
Mario Mori fu processato una prima volta nel 2005 per favoreggiamento alla mafia: secondo l’accusa aveva tardato nel perquisire il covo di Totò Riina che pure aveva contribuito a catturare; con lui finì alla sbarra anche Sergio De Caprio conosciuto come «Ultimo», l’uomo che fisicamente mise le manette al boss. Mori fu processato una seconda volta per il mancato blitz di Mezzojuso col quale secondo i pm si sarebbe potuto arrestare Bernardo Provenzano. Assolto in entrambi i casi. «Supererò quest’ennesima angheria», si legge ora nella nota del generale.
Una vita intera, per liberarsi delle fantasie istruttorie della giustizia italiana, dovrebbe essere sufficiente.