Per i molti che piangono la possibile morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi schiantatosi ieri con il suo elicottero ve ne sono altrettanti pronti a festeggiare in silenzio. In questo clima di profonda, ma silenziosa divisione il regime iraniano deve cercare non solo un successore alla carica di Presidente, ma anche a quella di Suprema Guida.
Il 63enne Raisi era considerato infatti il successore «in pectore» di Alì Khamenei che avrebbe più volte fatto il suo nome ai propri fedelissimi. Intanto, se si trattasse di un incidente mortale, – mentre la poltrona di presidente passerebbe a Mohammad Mokhber, attuale primo vicepresidente – la Repubblica Islamica dovrebbe indire nuove elezioni presidenziali entro cinquanta giorni. L’ipotesi della morte di Raisi viene intanto celebrata come una benedizione dai principali oppositori concordi nel considerarlo l’ispiratore del giro di vite iniziato con l’uccisione, nel settembre 2022, di Masha Amini, la 22enne curda arrestata e ammazzata di botte dalla polizia religiosa per non aver indossato il velo. Ma le esecuzioni susseguitesi dopo il 2022 son poca cosa rispetto a quanto avvenne nel 1988. Allora Raisi guidava il «comitato della morte» il tribunale speciale che in soli cinque mesi mandò al patibolo migliaia di militanti dei «Mujahedin del popolo» e di altre fazioni di sinistra come i Fedain e il Tudeh, il partito comunista iraniano. La raffica di esecuzioni decisa dall’Imam Khomeini con un ordine secreto – forse una vera e propria fatwa – dispose la formazione di una commissione incaricata di condannare come «mohareb» (contrari ad Allah) i «mujaheddin del popolo» e come «mortads» (apostati) i militanti di sinistra.
Raisi, al tempo vice procuratore di Teheran, entrò nel comitato assieme al suo capo Morteza Eshraqi, al giudice Hossein-Ali Nayyeri e a Mostafa Pourmohammadi, responsabile dell’intelligence di Evin, il carcere di Teheran cuore della mattanza. Grazie a quel precedente Raisi si è guadagnato la fama di «falco» del regime e di protetto di un Alì Khamenei pronto a indicarlo come successore nonostante l’ex-procuratore non abbia mai raggiunto il rango religioso di «ayatollah» indispensabile per sedere al vertice della Repubblica Islamica. La candidatura a presidente dell’«hojatoleslam» Raisi, decisa nel 2021, segna comunque una decisa svolta in chiave reazionaria. Una svolta il cui obbiettivo è marginalizzare qualsiasi dissidenza capace d’incrinare l’ortodossia di regime. E lo dimostra la spietata efferatezza con cui vengono represse le manifestazioni dopo l’uccisione di Masha Amini. La svolta radicale influenza anche la politica estera e la corsa al nucleare della Repubblica Islamica.
Con Raisi viene definitivamente accantonato il dialogo con l’Occidente avviato dal predecessore Hassan Rouhani. E molte intelligence, attribuiscono all’Iran la preparazione delle cellule di Hamas che il 7 ottobre guidano i massacri in territorio israeliano. Una mossa, decisa dai vertici della Repubblica Islamica per impedire i previsti accordi di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele. Ma Raisi è anche il presidente che rilancia con decisione la corsa al nucleare.
Con lui al potere la Repubblica Islamica spinge al massimo l’arricchimento dell’uranio portandolo a livelli decisamente superiori a quelli previsti per la ricerca e l’uso civile. Non a caso da mesi si parla di una atomica iraniana ormai solo da assemblare. E con Raisi si intensifica l’azione delle milizie sciite che grazie all’appoggio dalla Brigata Al Quds, l’unità dei pasdaran responsabile delle operazioni all’estero, operano dallo Yemen alla Siria e dal Libano all’Iraq.
Fino all’attacco con missili e droni che un mese fa porta Iran e Israele ad un passo dalla guerra aperta.