Le cronache dello scandalo ligure suscitano, è innegabile, un sentimento di profonda tristezza: politici che fanno la fila per attraversare la passerella dello Yacht Leila 2 di Aldo Spinelli; l’imprenditore che rinfaccia al Governatore Toti i pranzi a scrocco a Montecarlo; l’elenco certosino dei regali a fidanzate e amanti descritti nella marca e nel prezzo in perfetto stile bauscia. Insomma, una miriade di immagini pittoresche che sgorgano dai verbali e che descrivono un mondo – tra politici, burocrati e imprenditori – di personaggi forse potenti sicuramente improbabili.
Caricature da commedia all’italiana alimentate da quella trappola impietosa delle intercettazioni a tappeto in cui non c’è confine tra la ricerca del reato e la curiosità morbosa verso il privato. Tutto finisce in piazza e basta una battuta, una debolezza per consegnarti alla gogna. E duole dirlo, perchè è una filosofia agli antipodi dagli insegnamenti di Cesare Beccaria, ma viene il sospetto, più che fondato, che l’intento degli inquirenti sia proprio quello di esporre al pubblico ludibrio gli imputati, di impiccarli alle loro debolezze, all’insegna di un tribunale mediatico che punta ad emettere una sentenza ancor prima che cominci il processo, financo prima di un possibile rinvio a giudizio.
Di fatto un salto indietro nel tempo. Si rimanifestano le mode, i comportamenti, i rituali di un passato più volte criticato e tutti i bla bla sulle violazioni del segreto istruttorio, sull’opportunità di non rendere noti i verbali mentre l’inchiesta è ancora in corso, di non coinvolgere terze persone, tornano ad essere lettera morta.
Addirittura siamo andati “oltre” perché dopo la pubblicazione dell’ordinanza della custodia cautelare, fatto lecito, abbiamo assistito a degli interrogatori «in diretta»: i pm ponevano le domande alla persone coinvolte e qualche ora dopo uscivano sui media i verbali in maniera puntuale e circostanziata come se ci fosse la regia di un ottimo ufficio stampa.
L’apoteosi è andata in scena l’altro ieri. E qui davvero si è raggiunto un apice mai toccato in un paese che pure da quarant’anni vede la sua storia condizionata dalla spettacolarizzazione della giustizia. C’è stata una diatriba pubblica sull’interrogatorio del figlio di Spinelli tra i pm che avrebbero riportato nei verbali l’espressione “finanziamenti illeciti” richiesti al padre dagli imputati, e gli avvocati che precisavano come il loro assistito avesse parlato di “finanziamenti leciti”. Una diatriba su documenti che non dovrebbero essere pubblici. Roba da non credere. Una disputa su una parola «mal pronunciata» o «mal capita» più adatta alla sceneggiatura di Totò e l’ambasciatore di Catonga che non ad un’indagine. E l’assurdo è che mentre si parla di separazione delle carriere tra giudici e pm, di esami attitudinali per i magistrati, non c’è qualcuno che si scandalizzi, che almeno alzi la mano.
La verità è che dopo quarant’anni in cui siamo stati bombardati da queste perversioni, in cui si è fatto strame di ogni garantismo, la cultura giustizialista è diventata un’abitudine difficile da sdradicare. Appare normale anche ciò che non è affatto normale.
Ora nessuno vuole difendere quel mondo triste che emerge dalle intercettazioni, uno spaccato di società caratterizzato da un costume che non può appassionare ma solo sbalordire. Nessuno pensa che i comportamenti dei politici, degli alti burocrati e degli imprenditori coinvolti in questa vicenda non siano riprovevoli, al di là della loro liceità.
Solo che c’è da chiedersi legittimamente se quelli messi in atto nel caso dai magistrati non siano peggiori. Come si fa a scambiare l’espressione «illecito» con «lecito», o viceversa, quando su quella parola è appeso il destino non dico di un governatore che guida un’intera regione, ma di un semplice cittadino che è agli arresti? C’è un filo di amara comicità in tutto questo che ci riporta, appunto, alle parodie del nostro sistema giudiziario nei film in bianco e nero, da Totò a Sordi. Solo che quelle erano fantasie, questa purtroppo è la realtà che coinvolge persone in carne e ossa. E sbagliare un termine in un verbale d’interrogatorio di un arrestato non è meno grave del chirurgo che in un’operazione ricuce la ferita lasciando dentro il bisturi. Fa ugualmente male. Ecco perché da questa storia non escono bene i politici, i burocrati, gli imprenditori ma neppure i magistrati. Solo che loro a differenza degli altri hanno il potere di privare della libertà un cittadino.
Non è poco e certe cronache fanno rabbrividire.