Ala mezzanotte dell’1 luglio 1997 ad Hong Kong ci fu l’Handover. Questa data probabilmente passò quasi inosservata nella nostra coscienza storica occidentale, ma fu un transito epocale. Fu il passaggio di Hong Kong dalla sovranità britannica alla Repubblica popolare cinese. Venne posto fine, dopo 156 anni, al dominio del Regno Unito sull’ex colonia.
Eravamo in epoca di fasti della globalizzazione, e, tutto sommato, non pareva cambiare granché, visto che la Cina garantiva uno statuto speciale agli abitanti e, soprattutto, consentiva che i grandi affari della città potessero proseguire indisturbati. Ma l’attrito del tempo puntualmente fa sentire il suo urto. Nel 2020 le cose cambiano, e anche di molto. La Cina introduce la validità della legge sulla propria sicurezza nazionale nel territorio della città; in pratica si tratta di una sostanziale annessione, perché la relativa indipendenza politica e le libertà giuridiche di cui godevano gli abitanti di Hong Kong sono ora sottoposte alla applicazione di una legge che è nella mani del Partito Comunista. Una brutta storia, e, pure, un brutto risveglio per chi osservava le cose dal nostro vecchio mondo, ancora convinto di un prestigio europeo che è invece miseramente franato. C’è una rivolta di studenti, sempre nel 2020, che prova a resistere coraggiosamente al nuovo potere cinese, e che qualcuno saluta giustamente come una lotta democratica; ma c’è pure la repressione autoritaria che avviene senza che, in realtà, nessuno possa interferire.
Lawrence Osborne cala la vicenda intricata e misteriosa del suo romanzo Java Road (Adelphi) in questo scenario straniante, divenuto poco intelligibile al nostro sguardo occidentale intorpidito. In realtà, non ci fornisce le coordinate esatte, evita di trasformare il mondo romanzesco in una cronaca piattamente documentaria, ma ci conduce dentro l’atmosfera vivida e cupa di un nuovo totalitarismo in statu nascendi. Non ci sono riferimenti cronologici, o a troppi fatti precisi, ma è chiaro che il protagonista del suo libro, una specie di alter ego dello scrittore, il giornalista anglosassone disilluso e di mezza età Adrian Gyle, sta vivendo gli ultimi giorni della sua lunga permanenza in Oriente. In un certo senso è la descrizione di una catastrofe, di una estinzione, la cancellazione di un Occidente dentro le spire di un Oriente tornato dispotico, ostile, enigmatico. Come nei romanzi precedenti di Osborne il protagonista è uno spettro per gli altri e forse per se stesso, un uomo che nessuno considera parte della realtà, perché irriducibilmente straniero.
UN REVENANT A JAVA ROAD Gli expats vagano infatti, nell’Oriente raccontato da Osborne, come spettri, si nutrono della propria irrealtà e la accettano con fatalismo. Adrian Gyle segue il destino dei propri incontri come se seguisse un ciclo di avvenimenti ineluttabili, che collegano in un cerchio l’inizio e la fine del racconto. Si parte dalla giovinezza, al Claire College di Cambridge, dove Gyle è uno studente appassionato di sinologia e dove conosce il giovane, ricco e affascinante, cantonese Jimmy Tang. I due meditano di tradurre, nuovamente e senza successo, Lettera d’esule di Li Bai. Il confronto è con Ezra Pound che non conosceva direttamente il cinese, ma il confronto con la lingua poetica del grande poeta rende vano il loro proposito. S’incontrano di nuovo, diverso tempo dopo, a Hong Kong. Ormai la loro vita viaggia su un diverso binario. Jimmy vive sperperando denaro, curando l’abbigliamento, seducendo ragazze, anche se sposato. Adrian passa da un bar all’altro, una vita disordinata e inconcludente, con un mestiere da giornalista agli sgoccioli. Vede la fine della carriera, ma ha paura di non sapere affrontare più nessun cambiamento.
Tang gli presenta una ragazza, giovanissima, figlia di una famiglia potente, una attivista, impegnata nei durissimi scontri con la polizia che sta portando avanti, in modo autoritario e repressivo, l’instaurazione di un nuovo ordine politico, basato sul dominio diretto della Cina Popolare. Capita ad Adrian di invaghirsene, benché rimanga per lui solo un sogno. Dopo un po’ la ragazza sparisce, e dopo una serie di ricerche si conclude che ha avuto una sorte orrenda. È stata narcotizzata, stuprata, uccisa, e scaraventata in acqua. Ufficialmente si tratterà di suicidio, ma appunto il numero dei casi di persone che si presume si siano tolte la vita aumenta, in quei giorni, in modo esponenziale. Il potere cinese sta gettando la maschera e incute paura. Chi si oppone trova solo la morte e nessuna possibilità di scampo, o al massimo dovrà fuggire. Le grandi famiglie della città si stanno riposizionando e nei loro salotti si ascoltano discorsi nazionalisti, maoisti, filocinesi. Sta iniziando una nuova fase della storia mondiale dove la Cina pretende di essere attore principale di un futuro ordine mondiale?
È così che la vicenda umana di Adrian Gyle si specchia nell’acqua torbida della nostra contemporaneità più spaventosa. Il fantasma Gyle, quasi una non persona, sul punto di un esilio definitivo, diventa l’ultimo testimone di una catastrofe politica che non riguarda solo l’Oriente, ma noi tutti: «Era la nuova realtà e c’eravamo dentro tutti. I confini rimasti in piedi tra polizia, governo, famiglie, potenti e media, eliminati nel giro di un mese. La vecchia Hong Kong delle leggi e dei giudici britannicamente imparruccati decostruita in una notte e al suo posto era spuntato un mondo totalitario cupo e selvaggio nel quale regnavano dicerie, esagerazioni, odio, tribalismo, supposizioni. Davanti a un delitto – per esempio quando una giovane manifestante veniva ritrovata annegata o apparentemente suicida da un grattacielo – poteva presumere di sapere com’erano andati i fatti».
Nel nuovo totalitarismo la realtà è annientata, svuotata programmaticamente di consistenza. Osborne fa dire al suo protagonista che, in fondo, questo non riguarda solo la Cina, ma riguarda anche noi. Il nuovo totalitarismo si annuncia attraverso la distruzione programmatica del principio di realtà.
L’ORDINE NUOVO SI FONDA SUL PANICO Ho conosciuto qualche anno fa Osborne. Lo raggiunsi, era fine luglio del 2017, all’hotel Cabochon di Bangkok per una cena e poi mi condusse in un piccolo bar giapponese per una bevuta di whisky nipponico. Eravamo dalle parti del soi 33, a Sukumvith. Conversammo sull’Oriente e il bartender mi spiegò come organizzare un buon tour dalle parti di Osaka. Avevo letto Bangkok Days, e ammiravo Osborne per come aveva descritto la vita degli ex colonizzatori dentro un Oriente capitalistico e ipertecnologico. Tutto sommato, mi apparve come questa vita da expat conservasse un fascino indolente. A Bangkok pareva vivessero i cittadini del mondo della fine della Storia.
Nei sui ultimi libri Osborne ha incrinato questa mia percezione. Sia in Il regno di vetro che in Java Road si scorgono altri segnali e, forse, per la prima volta l’expat fa un ritorno difficile in patria. Non sarà facile per lui abituarsi.
Il mondo post-coloniale, però, non è un paese per vecchi.