Cinque filoni, tutti al capolinea. Inchieste Covid: restano solo macerie

Cinque filoni, tutti al capolinea. Inchieste Covid: restano solo macerie

L’ultimo flop è dei giorni scorsi: la procura di Bergamo alza bandiera bianca e chiede l’archiviazione per il filone che riguardava l’ospedale di Alzano Lombardo. Gli agguerriti avvocati delle vittime aspettano di leggere le motivazioni del provvedimento, che al momento nessuno conosce, poi daranno battaglia davanti al gip nel tentativo di rimettere in corsa il convoglio finito sul binario morto. Ma la partita sembra segnata e a questo punto si può dire che della grande indagine sul Covid, nata a furor di popolo a Bergamo, restano solo le briciole.

Una successione di archiviazioni, sparpagliate a spezzatino in mezza Italia, in un labirinto di procedimenti da far venire il mal di testa e che la dice già lunga sulla macchinosità, di più sull’inadeguatezza dello strumento penale davanti a una tragedia di queste proporzioni. Dunque, ci sono almeno cinque segmenti, tutti già arrivati o prossimi al capolinea: quello contro Giuseppe Conte e Roberto Speranza è stato archiviato dal tribunale dei ministri di Brescia, il secondo contro Attilio Fontana e i componenti del Comitato tecnico scientifico, è naufragato sempre a Brescia, il terzo a Roma, ad aprile, con la caduta delle accuse agli ex ministri della salute Speranza, Beatrice Lorenzin e Giulia Grillo per il mancato aggiornamento del piano pandemico, il quarto a Milano, per il mancato adeguamento del piano pandemico regionale, il quinto a Bergamo. A Roma però il gip, sollecitato dagli avvocati delle vittime, ha stabilito una camera di consiglio per il 20 giugno e potrebbe riaprire il procedimento. Ma il canone, come ha raccontato ieri il Foglio, è questo. Basta leggere le motivazioni del troncone relativo al duo Conte Speranza, ministro della salute e premier, per cogliere la clamorosa fragilità dei capi d’imputazione. In particolare, se ci si sofferma sul capitolo relativo a Conte si può percepire sin dall’incipit, nemmeno tanto velatamente sarcastico, lo scetticismo dei giudici di Brescia: «All’indagato è contestato, sia pure in forma non chiarissima, il reato di epidemia colposa omissiva in relazione alla diffusione dell’epidemia in Val Seriana, in particolare nei comuni di Nembro e Alzano Lombardo, per non aver esteso la zona rossa in quelle aree dal 26 febbraio 2020».

Quell’inciso, «non chiarissimo», è già un mettere le mani avanti. En passant, qualche pagina prima, gli stessi magistrati hanno scritto che l’epidemia colposa, come prevista dal legislatore, non può essere omissiva. Ci può essere la negligenza, o anche imprudenza e imperizia, ma l’illecito colposo è molto, molto stretto, L’epidemia, prevista dal legislatore nel 1929, è anzitutto dolosa e consiste nel diffondere germi patogeni. Il resto se non è accademia, poco ci manca.

E invece l’accusa si appoggia alla famosa consulenza del professor Andrea Crisanti che, sulla base di una proiezione statistica, calcola 4.148 morti in eccesso.

Ci vuole poco per capire che siamo di fronte a considerazioni molto coraggiose, anche se dettate dalla volontà encomiabile di scandagliare le eventuali responsabilità di tanto dolore. A Conte viene peraltro contestato l’omicidio colposo per la morte di 57 persone. Solo che l’omicidio colposo è pensato in rapporto all’epidemia colposa omissiva che per il tribunale dei ministri non è «configurabile». Mancano i presupposti giuridici per contestare il primo reato e il primo fa cadere anche il secondo. Ma poi c’è ben altro: «Posto che non risulta che il presidente del consiglio prima del 2 marzo 2020 fosse stato istruito della situazione dei comuni di Nembro e Alzano Lombardo, stando all’imputazione l’allora presidente del consiglio avrebbe dovuto decidere, circa l’istituzione della zona rossa, proprio il 2 marzo 2020, non appena avuta informazione della situazione dei due Comuni».

Di nuovo, qualcosa stride. «Si tratta, evidentemente, di ipotesi irragionevole perché non tiene conto della necessità per il presidente del consiglio di valutare e contemperare i diritti costituzionali coinvolti e incisi dall’istituzione della zona rossa». Un certo giustizialismo di piazza, cavalcato per anni, fra polemiche furibonde e talk infiammati, viene spazzato via in poche righe. E tutti ricordano la procuratrice aggiunta Maria Cristina Rota sulla porta di Palazzo Chigi quattro anni fa, in mezzo a un muro di telecamere.

Oggi tutto appare ridimensionato. Conte comprende la situazione il 2 marzo, poi deve prendere una decisione difficilissima che, spiegano i magistrati, non poteva essere assunta con il cronometro in mano. «E infatti – vanno avanti i giudici – l’istituzione della zona rossa comporta il sacrificio di diritti costituzionali quali il diritto al lavoro, il diritto di circolazione, il diritto di riunione, l’esercizio del diritto di culto». E via elencando. «Si tratta quindi di valutazioni che, per la loro gravità, non è esigibile e neppure auspicabile che vengano assunte senza un’adeguata ponderazione dei dati di conoscenza acquisiti. Sotto questo profilo – è la conclusione drastica – la condotta ascritta all’allora presidente del consiglio non è neppure astrattamente configurabile».

Macerie. Solo macerie. E Crisanti? «Il professor Crisanti ha compiuto uno studio teorico ma non è stato in grado di rispondere circa il nesso di causa fra la mancata attivazione della zona rossa e la morte di determinate persone». La posizione di Conte, e con lui di Speranza, può essere riproposta negli altri tronconi.

«Si trattava quindi di una decisione politica sottratta al vaglio giurisdizionale».

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