Oggi sappiamo che è possibile produrre energia dalla fusione nucleare, senza generare gas inquinanti né residui radioattivi. La cosiddetta «fusione a confinamento magnetico» funziona attraverso un plasma, ovvero un gas rarefatto e caldissimo (fino a 150 milioni di gradi centigradi) di ioni ed elettroni, rinchiuso grazie un campo magnetico dentro un recipiente a ciambella chiamato tokamak, massimizzandone le prestazioni grazie a un algoritmo dei ricercatori dello Swiss Plasma Center dell’Epfl e di Google.
È una strada «sacrificata» per ragioni più geopolitiche che economiche e affossata negli anni dalle solite fake news circolate dopo l’incidente di Chernobyl. Negli anni Settanta Bruno Coppi, docente del Massachusset Institute of Technology di Boston, aveva immaginato il futuro che conosciamo adesso. Il suo progetto Ignitor, nato da un’intesa italo-russa, prevedeva un nucleare «ibrido» (una combinazione di fusione e fissione) ma venne ostacolato da altri Paesi europei. Eppure, se adeguatamente finanziato e coltivato, forse avrebbe permesso di anticipare (e chissà, di raggiungerli in Italia) i traguardi sulla fusione nucleare ottenuti dal Mit. Nel 2005 sul Sole24Ore Ludovica Manusardi Carlesi lancia l’appello di Coppi al governo sulla centrale dismessa di Caorso per i suoi esperimenti su Ignitor. Si trattava di realizzare il nocciolo di un reattore a fusione sperimentale come sorgente dei neutroni necessari per produrre reazioni di fissione. Invano.
Secondo Renato Spigler, docente del Dipartimento di Matematica e Fisica di Roma Tre, sarebbe bastato un investimento ridicolo, circa 100 milioni di euro. È la stessa tecnologia già sviluppata per costruire le macchine sperimentali Alcator A (in funzione negli anni 1973-1979), Alcator C (anni 1978-1987), e Alcator C-Mod (anni 1991-2016), il cui nome viene dall’italiano «Alto Campo Toro», che hanno operato presso il Plasma Science and Fusion Center del Mit e due volte presso l’Enea di Frascati (Frascati Tokamak e Frascati Tokamak Upgrade), rispettivamente nel 1977 e nel 1989. Oggi il Pnrr vorrebbe trasformare Caorso in un deposito per opere d’arte e laboratori di restauro.
Come per l’informatica e la chimica, anche la strada per il nucleare italiano è lastricata di occasioni perdute.