New York – La Columbia alza bandiera bianca, almeno per quanto riguarda le lauree. L’ateneo più prestigioso di New York ha deciso di cancellare la cerimonia dei laureandi prevista per la metà di maggio. L’università della Ivy League, epicentro della rabbia studentesca contro la guerra a Gaza, da settimane vive una delle fasi più turbolente della sua storia. Prima gli accampamenti pro Palestina nel cuore del campus, poi i primi fermi e il lockdown e infine l’occupazione dell’Hamilton Hall e l’arresto di altri 100 occupanti.
Quello sgombero, caldeggiato dalla rettrice Nemat Shafik, doveva servire per permettere le cerimonie, ma alla fine questioni di sicurezza hanno costretto allo stop. Gli eventi dell’Hamilton Hall hanno aperto un faro sulla presenza di attori esterni alla Columbia, agitatori che soffiano sul fuoco della protesta.
Già dopo il primo sgombero e la successiva chiusura dell’ateneo facendo un giro fuori dai cancelli si notava la presenza di persone non collegate all’università. «Questi vengono da fuori, non c’entrano niente con la Columbia e con New York», racconta al Giornale Ron, un ebreo newyorkese di mezza età che si trova lì per contestare i manifestanti. «Senti, non sanno nemmeno cosa dicono». Dal sit-in partono cori che inneggiano all’intifada attaccando università, Usa e Israele. Tra una parola e l’altra Ron si stacca per incalzare le persone che passano: «Perché ti copri il volto con la kefiah? Fammi vedere in faccia chi sei».
Provare a parlare coi manifestanti non è facile. Molti hanno il volto coperto e diversi preferiscono non parlare. Una ragazza accetta di farlo solo tenendo una mascherina e senza dire il suo nome: «Sono qui per chiedere che la Columbia chiuda i suoi investimenti in Israele». Un ragazzo accanto a lei interviene: «Chiunque si definisca essere umano dovrebbe essere qui a protestare». Poi l’affondo contro l’amministrazione Biden: «Deve smettere subito di fornire supporto a uno stato terrorista».
Mano a mano che ci si allontana dalla Columbia e si esplorano gli accampamenti negli altri campus lungo la costa Ovest degli Usa, i toni cambiano, ma non i contenuti. Tutti, da Yale al Mit di Boston, vogliono che le università taglino i legami con Israele. E le accuse di antisemitismo? Chisato, studentessa e portavoce del campo di Yale spiega a Il Giornale: «Per noi non è una questione religiosa. Tanti studenti partecipano e siamo qui per la libertà di ognuno, inclusa la comunità ebraica».
Tra le tende si aggira anche qualche studente con la kippah, ma spicca una certa malizia nel rapporto coi media.
In alcuni casi studenti ebrei muniti di kefiah, fanno da portavoce dei vari accampamenti e tutti più o meno danno la stessa versione: «Aggressioni antisemite? Mai viste, qui il clima è sereno».