Non è stato lui direttamente e forse non ha nemmeno dato ufficialmente ma di certo non si può dire che sia estraneo alla vicenda e non abbia avuto un ruolo decisivo. Così, secondo l’intelligence americana, si può sintetizzare l’uccisione del dissidente russo Alexei Navalny, morto in un carcere siberiano lo scorso febbraio. Secondo quanto riporta il Wall Street Journal la responsabilità morale è quindi di Putin ma non quella diretta.
Il quotidiano americano cita persone dei servizi segreti ai massimi livelli secondo cui la morte di Navalny non sarebbe stata specificamente ordinata da Putin che ha comunque palesi responsabilità. «La valutazione non contesta le responsabilità di Putin ma ritiene piuttosto che probabilmente non sia stato lui a ordinarla in quel momento». Anche se diversi analisti di agenzie di intelligence in particolar modo europee ritengono impossibile che lo zar sia estraneo alla vicenda. Certi della volontà di Putin di eliminare il principale oppositore sono gli uomini dell’entourage di Navalny con Leonid Volkov, suo ex braccio destro, che definisce «ridicola» l’ipotesi che Putin non abbia approvato il suo omicidio. Secondo il giornale americano, anche le agenzie europee sono state informate della valutazione degli Usa ma non è chiaro se esistano versioni «alternative» sulla morte di Navalny. Di certo, il Cremlino non ha fatto nulla per impedire la sua morte, anzi. Dopo l’arresto, le privazioni, le botte e i processi farsa, l’ultimo atto è stato il trasferimento in un carcere in Siberia, ai confini del mondo. E resta in piedi l’ipotesi che «il problema» Navalny sia stato risolto da uomini vicini a Putin nel momento in cui è diventata di dominio pubblico l’ipotesi di uno scambio di prigionieri che avrebbe riportato in libertà l’oppositore anche se il Cremlino bolla tutta la vicenda come «poco credibile».
Tra le altre certezze, c’è che la Russia rimane un Paese pericolosissimo per chiunque abbia la presunzione di poter esprimere la propria opinione. Le ultime vittime sono Konstantin Gabov, arrestato per aver contribuito a realizzare un documentario proprio su Navalny e accusato di estremismo, e il giornalista russo di Forbes Sergei Mingazov. Il cronista è stato arrestato a Khabarovsk con l’accusa di aver diffuso informazioni false sull’esercito russo. Mingazov avrebbe, che in passato ha collaborato anche con il quotidiano economico Vedomosti, ha ripostato un articolo sulla strage di Bucha del marzo 2022 sul suo canale Telegram «Khabarovskaya Mingazeta» e per questo si trova nel centro di detenzione temporanea di Khabarovsk. Secondo le nuove normative russe, varate dopo l’inizio della guerra in Ucraina, chiunque riporti notizie ritenute false o che possano gettare discredito sulle forze armate, finisce in galera, a prescindere (ovviamente) dalla realtà dei fatti. Secondo le stime dei media indipendenti sono già 132 persone le persone condannate per aver messo in cattiva luce l’esercito o aver diffuso notizie vietate secondo il regime.
E nonostante le proteste, gli appelli e le prese di posizione, resta in carcere anche il corrispondente del Wall Street Journal Evan Gershkovich, arrestato nel marzo 2023 con l’accusa di spionaggio e certo di rimanere in cella almeno fino alla fine di giugno. Ancora non è stata fissata per lui una data per il processo e le autorità russe non hanno comunicato quali siano le prove a sostegno dell’accusa, prolungando così la detenzione preventiva.
Un segnale, forte e brutale, verso chiunque in Russia si azzardi a raccontare la verità.