C’era qualcosa di surreale nel discutere della possibilità di una guerra in Medio Oriente mentre fuori, nella più esposta delle città ucraine, le sirene antiaeree suonavano, segnalando la minaccia di una guerra europea più vasta.
Quel fine settimana a Kharkiv, come in molti altri luoghi, gli attacchi dell’Iran a Israele erano sulla bocca di tutti. In piedi nella vuota Piazza della Libertà della città, la mia amica Olga Shpak – volontaria di Assist Ukraine – e io stavamo valutando il significato dei possibili scenari per l’Ucraina. L’approccio ottimistico è stato: se Israele colpisce l’Iran, forse ci saranno meno droni Shahed di fabbricazione iraniana che la Russia potrà usare contro l’Ucraina? E se l’Iran continuerà ad attaccare Israele, forse il Congresso degli Stati Uniti accelererà il pacchetto di aiuti militari sia per Israele sia per l’Ucraina? Poi si è affacciato il pessimismo: e se il presidente della Camera Mike Johnson separa il pacchetto e gli aiuti militari verranno destinati a Israele ma non all’Ucraina? Gli ucraini sanno bene che i due Paesi non sono ugualmente importanti per gli Stati Uniti e i loro alleati.
Nei giorni successivi ho viaggiato a nord di Kharkiv verso il confine russo, a sud di Kramatorsk e Kostiantynivka e poi a Kiev, e parlato con gli ucraini che consideravano un tradimento la promessa degli Stati Uniti di aiutare loro per «tutto il tempo necessario». Non hanno cercato di essere diplomatici; erano amareggiati, tristi e preoccupati. Ma non si sono arresi.
I soldati che ho incontrato a nord di Kharkiv, a soli 15 miglia dal confine russo, non hanno detto molto, ma non ne avevano bisogno: un gruppo di volontari polacchi aveva appena fornito loro una ruspa per scavare trincee e questo parlava da sé. Senza armi o munizioni per sferrare un attacco, potevano solo scavare, cercando di resistere all’avanzata del nemico. La ruspa era nuova di zecca ed erano grati di averla ricevuta, ma erano angosciati dal fatto di doversi mettere al riparo invece di sferrare un contrattacco.
La mia tappa successiva è stata vicino a Kramatorsk, a circa 150 miglia a sud di Kharkiv, per vedere un’unità militare che conosco da diverse visite passate. Il comandante ha parlato della frustrazione mentre osservano i russi con i droni. Senza le munizioni di artiglieria da 155 mm provenienti dagli Stati Uniti, gli ucraini possono attaccare il nemico solo quando i russi si avvicinano abbastanza da permettere ai droni a corto raggio di produzione locale, chiamati Fpv (first-person view), di attaccare come una sorta di «artiglieria sostitutiva». La sua unità dispone di alcune munizioni, ma «da 6 mesi siamo in grado di rispondere solo quando c’è una forza di almeno 40 o 50 russi: non possiamo sprecare i nostri 155mm per gruppi più piccoli».
Richiamare nuove truppe cambierà poco, ha detto, se non c’è l’artiglieria a coprire la fanteria. «Un mese fa, abbiamo inviato 14 soldati appena addestrati: tutti ‘200’», ha detto usando il gergo militare per indicare i morti in azione. «I russi sanno che possono arrivare molto vicino a noi e in più hanno il Reb, un sistema di guerra elettronica che abbatte i nostri droni. Noi non abbiamo abbastanza Reb per fare lo stesso con loro».
Un altro soldato di questa unità mi ha detto che il trasporto blindato di cui dispongono non può avvicinarsi alla città di Chasiv Yar perché, non avendo molta artiglieria né Reb, i russi lo distruggerebbero in pochi minuti. Chasiv Yar è l’obiettivo di un’offensiva russa prolungata, presumibilmente perché Vladimir Putin vorrebbe vantarsi di aver conquistato questa piccola città durante la parata annuale del 9 maggio che celebra la vittoria sulla Germania nella Seconda guerra mondiale. «Vedo i loro Grad (lanciarazzi multipli), ma per neutralizzarli dovrei usare 10-15 proiettili, e non posso sprecarne così tanti».
Ho incontrato l’ufficiale dell’intelligence di un’altra unità sotto un bellissimo ciliegio in fiore, ma le notizie che mi ha dato sono state invece cupe. I russi sacrificano spesso i loro soldati per indurre gli ucraini a rivelare le loro posizioni, mi ha detto. Si tratta della ormai famosa tattica «tritacarne», mi ha spiegato, in cui le truppe russe inesperte vengono inviate in avanti, seguite da un distaccamento – lo zagrad otriad o «plotone di tamponamento» – il cui unico scopo è quello di non consentire la ritirata dei giovani russi.
A Kostiantynivka, Olga Alexandrovna, un’altra vecchia conoscenza, mi ha accolto con dei fiori: «Ania, come avrei potuto andarmene da qui?! Guarda i miei tulipani, sono così belli quest’anno». Si sentivano i colpi dell’artiglieria, ma Olga Alexandrovna mi rassicurava: si trattava di fuoco in uscita, perché se fosse stato in arrivo il suo peloso cane bianco si sarebbe fatto prendere dal panico. «Mishka sa riconoscere la differenza. È il mio guardiano». Sapeva che se avesse voluto essere evacuata c’erano gli autobus; ha anche preparato una piccola borsa «per ogni evenienza», ma a meno che Chasiv Yar – sei miglia a est – non cada, lei intende rimanere.
Poi sono andata a Kiev, dove, pochi giorni prima, un missile russo aveva distrutto la centrale elettrica di Trypilska, la più grande della Capitale. La difesa aerea ucraina insufficiente è un’altra carenza che costa vite umane ogni giorno. Siamo stati fortunati ad avere l’elettricità nella nostra zona mentre Mikhail Reva, uno scultore di Odessa, ha tenuto una lezione di arte e politica per i giovani leader della comunità. Un giornalista gli ha chiesto quale fosse, secondo lui, la fonte di tanta determinazione nelle file ucraine.
L’ho sentito citare la premier israeliana Golda Meir: «La nostra arma segreta – ha detto – è che non abbiamo alternative».