Un solo nemico per quattro mondi diversi, quattro pezzi di società – ognuno a suo modo marginale – che convergono verso un solo obiettivo simbolico: la presenza ebraica nel corteo del 25 Aprile a Milano, le bandiere con la stella di David arrivate in piazza Duomo per celebrare la Liberazione. E che si ritrovano contestate, con le buone o con le cattive, da direzioni eterogenee. Ma il risultato finale è uno solo: l’aggressione fisica allo spezzone della Brigata Ebraica, lasciato quasi indifeso dagli organizzatori del corteo, con l’unica protezione da parte dei City Angels.
É uno spaccato in gran parte inedito di come la guerra in Medio Oriente sta polarizzando a Milano l’odio verso Israele, unendo mondi differenti. Dei quattro fronti d’attacco contro la Brigata uno solo è composto prevalentemente da italiani: è il consueto, vecchio mondo dei centri sociali e dell’antagonismo, da sempre affianco all’ala dura della resistenza palestinese, quelli del «buttare a mare Israele». Sono gli stessi che da anni costringono la Brigata a sfilare blindata, che insultano i sopravvissuti dei lager e che appena possibile danno alle fiamme le bandiere con la stella a sei punte.
L’altro ieri, gli antagonisti nostrani hanno trovato sponda in alleati di diverse età, ma tutti provenienti dall’immigrazione araba. Tra loro, la parte (almeno in apparenza) più morbida è composta dagli adulti provenienti dalle moschee milanesi, in passato centro di reclutamento per terroristi, poi – anche grazie alle inchieste giudiziarie – tranquillizzatesi: ma, dopo l’attacco di Hamas e la risposta di Israele, tornate a ospitare predicazioni infiammate. Le immagini provenienti da Gaza, con i morti civili sotto i colpi israeliani, stanno ridando fiato a chi dentro le moschee milanesi aveva dovuto rassegnarsi a moderare i toni. Anche alcuni esponenti di questo mondo erano presenti al corteo che si è snodato per Milano.
Ma i veri protagonisti entrati in scena, i più preoccupanti, sono i giovani e i giovanissimi. Immigrati di seconda generazione, presenti in massa nelle periferie milanesi, spesso in condizioni di emarginazione e disagio. Già nei mesi scorsi i fratelli maggiori erano apparsi nei cortei dei centri sociali contro Israele, e il 27 gennaio, nel Giorno della memoria, avevano partecipato ai tentativi di sfondamento dei cordoni di polizia al grido di «Intifada», e l’altro ieri sono tornati in piazza con lo stesso spirito: utilizzare la sponda degli estremisti di sinistra per propagandare la lotta armata contro l’occupazione. Sono presenze nuove dell’orizzonte urbano: scolarizzati, parlano italiano, nelle scuole hanno imparato il know how della contestazione. Non hanno ereditato dai padri la gratitudine per l’accoglienza, a muoverli è la mancanza di prospettive. La solidarietà con i «fratelli palestinesi» è un collante formidabile.
Il quarto spezzone, responsabile dell’aggressione a coltellate a esponenti ebraici, è il più giovane: sono i ragazzini delle baby gang, anche loro cresciuti in isole di degrado urbano come piazza Selinunte, finora totalmente privi di riferimenti religiosi o politici, ma vulnerabili al proselitismo. «Vivono difficili condizioni socio economiche – spiega Francesco Calderoni, ordinario di Criminologia all’Università Cattolica e ricercatore di Transcrime – e possono ricorrere a comportamenti predatori, legati ad esempio all’utilizzo e allo spaccio di droghe. Queste condizioni spesso generano rabbia e frustrazione, che fanno esplodere elementi identitari. Vista la loro provenienza familiare, quanto sta accadendo in Terra Santa si presta perfettamente».
Significa che c’è un pericolo di passaggio dal mondo delle baby gang a quello dell’integralismo religioso? «Se guardiamo all’esperienza di paesi come la Francia, il Belgio e la Germania, vediamo che il background di alcuni attentatori era simile a questo, provenivano da contesti di emarginazione e di devianza minorile. Certo, parliamo di numeri fortunatamente modesti, di fronte a situazioni di disagio che coinvolgono centinaia di migliaia di giovani i casi di transito all’estremismo violento sono di poche unità.
Ma il fattore di rischio esiste».