Dall’odio per Israele al legame con Hamas: il risiko dietro l’attacco dell’Iran

Dall'odio per Israele al legame con Hamas: il risiko dietro l'attacco dell'Iran

L’acuirsi dello scontro tra Iran e Israele, questa notte, costituisce l’apice di un’inimicizia che perdura da decenni tra il Paese più potente del Medio Oriente stretto e la nazione meglio armata del Medio Oriente “allargato”, il cosiddetto outer ring.

Quando Iran e Israele non erano nemici

Partiamo dalle origini: l’Iran fu il secondo Paese a maggioranza musulmana a riconoscere Israele come Stato sovrano, dopo la Turchia. Ne seguì un periodo piuttosto complesso, che dopo il colpo di Stato che rimise sul trono lo scià Reza Pahlavi, vide un significativo miglioramento delle relazioni fra i due Paesi. Un dato conta su tutti: nel periodo che va dalla fine degli anni Cinquanta alla guerra dei Sei Giorni, Israele ebbe un ruolo chiave nella formazione e sviluppo delle forze armate persiane, mentre l’Iran accelerava la vendita di petrolio greggio a Israele. Tuttavia, all’inizio degli anni Settanta diversi sviluppi regionali (in Egitto, ad esempio) minacciarono di ostacolare le fiorenti relazioni fra le due nazioni. In Iran continuarono a soffiare venti anti-israeliani, soprattutto tra il clero e gli elementi ostili alla dinastia Pahlavi, oltre che fra le frange anti-occidentali. Il più importante portavoce di questi sentimenti fu proprio Ruhollah Khomeini, che già all’inizio degli anni Sessanta divenne il referente politico e filosofico di questi filoni.

Alle origine dell’odio tra Iran e Israele

Ma è in seguito alla rivoluzione islamica del 1979 che l’Iran scelse di interrompere tutti i legami diplomatici con Israele, ribadendo l’illegittimità dello Stato ebraico come nazione sovrana. La rivoluzione generò una crisi politica ed economica alla quale si aggiunse, per la prima volta in modo risolutivo nell’età contemporanea, una motivazione religiosa. Gli sciiti concentrati in Iran e disseminati altrove nel Medio Oriente e in Asia, volevano proporre al mondo la loro interpretazione degli insegnamenti di Maometto, mostrandosi come campioni della lotta contro il privilegio e l’oppressione e, dunque, contro i potenti nelle loro aree di pertinenza.

In questo nuovo felice isolamento che si costruiva man mano, Yasser Arafat fu il primo leader straniero a visitare la Repubblica islamica, accompagnato da un giovane Abu Mazen. Arafat aveva costruito pian piano la propria intesa cordiale con l’Iran, addestrando attraverso l’Olp le miizie khomeiniste nelle sue basi nel sud del Libano. La situazione iniziò lentamente a scivolare verso il baratro con il crollo dell’Unione Sovietica e la sconfitta dell’Iraq nella guerra del Golfo. Ne farà le spese anche l’Olp di Arafat, sulla quale Khomeini pretese di appiccicare l’etichetta di movimento di “resistenza islamica”: del resto, fu proprio lui a ribadire che “L’Islam o è politico, o nient’altro“. Ma l’Olp aveva ben altre aspirazioni che quelle teocratiche, e il modus vivendi dei suoi affiliati erano tutto tranne che rigorosi. Così Khomeini, divorziato anche con Arafat, proseguì nello scrivere la propria narrazione: l’Iran avrebbe dovuto fare da guida all’intera Umma islamica in due modi: allontanandosi da Israele; esercitando un potere di fascinazione sul resto del mondo islamico.

Iran protettore dei Palestinesi

La divisione settaria principale all’interno dell’Islam, quella tra sunniti e sciiti, rende incomprensibile l’avvicinamento di Teheran alla battaglia palestinese, ma soprattutto ad Hamas. Un “matrimonio di convenienza” come è stato spesso dipinto, che oggi complica ancor di più lo scenario dopo il 7 ottobre scorso. Khomeini, “rubando” la causa palestinese e tagliando i ponti con Tel Aviv, ha preparato il terreno per una battaglia egemonica all’interno della casa dell’Islam, anche attraverso il modellamento di battaglie evanescenti in Palestina fino a quel momento. Teheran è riuscita dove gli altri hanno fallito: ovvero realizzare uno Stato potente fondato su Islam e forze armate, portatore di un modello unico nel mondo politico musulmano, forgiando schiere di proxy che vanno da Hezbollah in Libano ai i ribelli Houthi in Yemen.

L’obiettivo di giungere nel cuore del Medio Oriente è diventato così potente nelle aspirazioni di Teheran, da cercare di trovare perfino un escamotage religioso per ammantare di fede il patto con Hamas. Come avevamo già raccontato da queste colonne, era il 2010 quando un opuscolo di poco più quaranta pagine in arabo venne inviato tagli attivisti di Hamas a Gaza e a membri d’élite del gruppo in Cisgiordania. Si intitolava I Fratelli Musulmani e la rivoluzione islamica in Iran. Per lungo tempo, infatti, la vicinanza tra i miliziani islamisti e l’Iran è stata bollata come un mero connubio occasionale, ma la tesi contenuta nell’opuscolo, invece, è che i Fratelli Musulmani, con Hamas come ramo palestinese, sarebbero un partner “naturale” dell’Iran, con i quali condividere l’idea di rinascita del Califfato, al di là della frattura ideologica atavica fra sunniti e sciiti. Peccato però che la Fratellanza non abbia mai citato l’Iran come esempio da emulare.

Dopo il 7 ottobre

A poche ore dall’attacco di Hamas a Israele, il 7 ottobre scorso, l’Iran non ha minimamente nascosto il proprio supporto all’operazione. A poche ore dall’operazione, infatti, un portavoce di Hamas, Ghazi Hamad, rese immediatamente noto che il Movimento di resistenza islamica aveva ricevuto “il diretto sostegno dell’Iran“, suo fermo alleato, e che questo era “motivo di orgoglio”. In quei fotogrammi così drammatici, fu dunque immediatamente chiaro come l’obiettivo principale di Teheran fosse quello di destabilizzare l’area, impedendo la normalizzazione del mondo saudita con Israele, suo acerrimo nemico.

Ma al di là del gigantesco mondo saudita, dove sono e cosa fanno gli altri Paesi “arabi”? Se 2+2 fa 4 dovrebbero intervenire (avrebbero “dovuto” già da tempo, a rigor di logica) a sostegno non solo dei Palestinesi, ma supportare ideologicamente la mossa anti-israeliana di Teheran. E invece, nessun concreto sostegno ai Palestinesi, se non a parole, fin dall’ottobre scorso. Un silenzio che sta diventando imbarazzante, se non per qualche sparuta e modesta geremiade, che ormai rende la Lega Araba una conventicola imbarazzante. Ma anche il silenzio è presto spiegato: si tratta di una geometria variabile che ormai si era incanalata verso gli Accordi di Abramo e i loro vantaggi, fino a quando l’Iran non ha sparigliato le carte. A partire dal feroce bin Salman fino all’ambiguo Qatar, sicurezza, investimenti, denaro e stabilità valgon bene una messa nel Golfo.

Molto più della causa palestinese.

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