Il racconto sull’IA più bello è forse Golem XIV del polacco Stanislaw Lem, più noto per il romanzo Solaris. Molti scrittori si sono sforzati di capire e descrivere l’intelligenza artificiale in tutte le sue potenzialità, positive e negative. Ma chi ha detto che le intelligenze artificiali dovrebbero essere interessate ai propri programmatori? Lem immagina un futuro radicalmente diverso. Golem XIV, il cervellone perfetto, si stufa rapidamente di gestire i sistemi industriali e militari dell’umanità. Abbandonati i suoi creatori al loro destino, Golem XIV, al culmine della sua evoluzione, diventa una macchina filosofica: si interroga sul suo destino e sul destino del cosmo. L’intelligenza artificiale, giunta al massimo dello sviluppo, incomincia a farsi le domande che l’umanità si fa da sempre: chi sono, dove sono, che fine farò. Lem, in fondo, crede nell’uomo più di quanto creda nella macchina: il radicale bisogno di dare un senso alla realtà è il vero segno di un’intelligenza superiore. Sia naturale, sia artificiale.
La fantascienza, comunque, si è divertita parecchio a inventare trame terribili, in cui la macchina supera l’uomo e magari ne fa pure a meno. Vediamo rapidamente il cinema. Quando la rete di computer Skynet diventa anche una rete neurale, i Terminator decidono di sbarazzarsi di noi. Il viaggio di 2001. Odissea nello spazio è guidato da un computer così evoluto da provare sentimenti di solitudine, emarginazione e inferiorità. Risultato: massacra l’equipaggio della nave stellare. In Transcendence, uno scienziato scarica la propria coscienza in rete. Peccato che prenda vita autonoma e provochi un disastro. In A.I., la macchina non sa di essere tale, ed è anche difficile distinguere l’artificiale dal naturale. Ma il film di Spielberg, su soggetto di Kubrick, non ha la poetica profondità del racconto di Brian Aldiss dal quale è tratto: Supertoys che durano tutta l’estate, un piccolo capolavoro di uno scrittore molto sottovalutato dall’editoria italiana.
Torniamo ai libri. Le radici del male di Maurice Dantec, visionario autore francese morto prematuramente, all’apparenza è soltanto un thriller violento. Ma prende una strada inattesa quando emerge il vero detective: una «neuromatrice», ovvero una Intelligenza Artificiale capace di predire i comportamenti di ogni tipo umano, compresi i serial killer del libro, uscito nel 1995.
Il classico dei classici, però, è Neuromante di William Gibson, un romanzo del 1984 capace di diventare, decennio dopo decennio, sempre più vero. Tra l’altro: avete presente la parola «cyberspazio», oggi di uso comune per indicare lo spazio virtuale nel quale utenti (e programmi) connessi fra loro, attraverso una rete telematica (internet), possono muoversi e interagire per gli scopi più diversi? L’ha inventata lui. Avete presente la matrice, l’architetto, Zion, la dub music? Tutte trovate di Gibson, anche se hanno fatto la fortuna delle sorelle Wachowski, registe della saga di Matrix. Avete presente soprattutto le IA, ovvero le intelligenze artificiali e tutto il dibattito che ne accompagna l’evoluzione? Possono mettere in pericolo l’esistenza della nostra specie? Ecco, è l’argomento di Neuromante. La cosa divertente è che William Gibson sostiene di non aver alcuna reale competenza in materia tecnologica. Probabilmente è understatement. È invece vero che Neuromante fu scritto di corsa nel giro di dodici mesi come da contratto capestro. Inutile parlare della trama di Neuromante perché è anche uno splendido noir e non vogliamo rovinare il piacere della lettura. Possiamo dire che il protagonista è un hacker, in apparente disgrazia, di nome Case. L’hacker è l’operatore capace di muoversi nel cyberspazio e di violare le banche dati più protette e inaccessibili. Gibson descrive Case come un cowboy in costante esplorazione della frontiera. L’altro grande protagonista si chiama Invernomuto ed è una Intelligenza artificiale. Difficile capire cosa voglia Invernomuto, che agisce (forse) come un burattinaio: liberarsi dai vincoli imposti dall’uomo? Sparire nei meandri del cyberspazio? Spegnersi? Fondersi con altre IA? O il burattinaio è in verità un burattino? Non ve lo diciamo. È comunque un errore credere che una macchina abbia un fine anche lontanamente simile a un fine umano. Sono le conclusioni contrarie a quelle di Lem.
E forse questo ci dice che noi stessi, quando interagiamo con le IA, non sappiamo davvero con cosa (o chi?) abbiamo a che fare. Pericoloso, no?