A pensarci adesso che tutti sappiamo com’è andata a finire, scorrere di nuovo il nastro di quella partita fa ancora più male. A Los Angeles è una fresca serata di aprile del 2016. Il giorno esatto è il tredici. Una processione di gente emotivamente squassata accorre per assistere a quest’ultima liturgia laica. All’ultima dose di veleno emessa dal Mamba. Indossano quasi tutti la canotta gialloviola con il numero 24 su impresso. Stanno per far parte del commiato di Kobe Bryant al basket, dopo vent’anni di fila con i Los Angeles Lakers.
Lui ha sempre fatto le cose al massimo livello pensabile, oppure nemmeno a farle. Quella sera lì non fa eccezione. Kobe dilagherà mettendo a referto 60 punti nella vittoria della sua squadra per 101 a 96 contro gli Utah Jazz. Una partita alquanto sofferta, che vedrà i Lakers spuntarla dopo una lunga rincorsa e che conserva in quel canestro decisivo, a 31 secondi dalla sirena, il senso della grandezza di un atleta che si è sempre spremuto per sgretolare i limiti.
Palla a lui, un rapido volteggio, sprint, arresto, stacco e tiro. La traiettoria quasi accarezza il ferro, poi va a conoscere docilmente la retina. Lo stadio esplode, è il finale che tutti speravano e sta davvero succedendo. Bryant non ha dubbi, perché la trama ha sempre voluto scriverla lui. Chiaro che anche l’addio alle scene deve avvenire a suo modo, con quel punto decisivo, sei triple, e quella quantità monstre di punti che stabilisce un altro record: è il più anziano di sempre a riuscirci. Strano per lui essere costretto a dire basta dopo una prestazione strepitosa, ma gli anni sono 38 ed il tempo che scorre, villano, pretende il suo dazio.
Placcato dalle telecamere, lui stesso ammette di non riuscire a realizzare che quella lunga galoppata sia giunta al termine. Intanto 20 mila persone accorse per stringersi in un abbraccio collettivo al loro idolo lo acclamano. Indossano una maglietta con la scritta “LOVE” impressa sopra, a caratteri cubitali. Prima del suo ingresso in campo una lunga sfilata di star gli rende il giusto tributo. Ci sono gli amici e i rivali di sempre, parlano Shaquille O’Neal e Jack Nicholson, tutti gli dicono e gli fanno capire che Los Angeles lo ama e che il sentimento sarà eterno, inscalfibile.
Kobe è commosso, ci mette un po’ a carburare, ma poi dal settimo minuto si mette a dominare il match e non ne esce più, dilaniandolo con la solita draconiana attitudine. Passa in mezzo agli avversari come fossero burro e non potrebbe essere altrimenti per uno che osò sfidare Michael Jordan a più riprese, spaventato da nulla. Chiude quel suo lungo arco con la palla a spicchi a sbattere su palmi e falangi con 33.346 punti all’attivo. Quel giorno è il quarto miglior realizzatore di tutti i tempi in Nba. Quel successivo volo, fatale, non appannerà la leggenda.
Anzi, la rende oggi ancora più inestinguibile.