“Democrazia” deve fare rima con “Aristocrazia”

"Democrazia" deve fare rima con "Aristocrazia"

Plutarco viene da lontano, da una regione della Grecia che fa sorridere gli ateniesi, terra di montagne e di pastori, con un dialetto ruvido e aspro che ti resta attaccato come un’infamia. Cheronea è in Beozia e i beoti godono ancora di cattiva fama, con quella carica di pregiudizi che i cittadini riservano alle genti di campagna, con una patente di rozza ingenuità.

Non importa che Plutarco sia uno scrittore di raffinata eleganza, da apparire troppo aristocratico non solo nelle accademie di Delfi ma perfino nella Roma di Adriano e di Traiano. Le Vite parallele sono un archetipo che si rinnova nei secoli, ma è nei Moralia che sposta l’orizzonte al di là del proprio tempo e scardina le frontiere della conoscenza umana, incrociando etica, politica, filosofia, letteratura e intuizioni sulla vita e l’universo. È da qui che arriva questo breve saggio ricostruito da Carlo Carena, dove Plutarco parla di fatto agli intellettuali di questo secolo disorientato e confuso, con una serie di consigli e suggerimenti che dopo duemila anni non sembrano affatto scaduti. Il titolo è lineare: Plutarco, l’arte della politica (Einaudi, pagg. 131, euro 22). È un viaggio nel cuore del potere e di tutto quello che vi ruota intorno.

È lo sguardo di un irregolare, un uomo a cui in fondo non piace appartenere, anche se in qualche modo si trova a ricoprire cari che importanti, tanto da arrivare al consolato, qualsiasi cosa questa carica voglia dire sotto il cielo dell’impero romano. Non condivideva nessuna scuola, avversava la sensualità di Epicuro, ma non accoglieva neppure il rigore degli stoici. Faceva parte a se stesso. «Plutarco – scrive Carena – trasferisce il ritratto teorico del politico incarnandolo in una serie di grandi e piccoli personaggi, accompagnando a ogni passo il lettore familiarizzandolo con sovrani e condottieri, democratici e tiranni, oratori e poeti, persino con qualche profilo femminile e qualche canaglia». Ecco allora i consigli a un governante incolto e l’invito a fidarsi di consiglieri illuminati, perché la sfiducia genera paura e la paura è un tormento che a lungo andare scarnifica ogni potente e lo lascia solo in balia dei suoi fantasmi, tanto da temere ogni sospiro dei propri sudditi.

Plutarco diffida dei successi facili e di chi non è consapevole dei dispetti della fortuna, che rovescia chi sembra confidare troppo nell’amicizia della sorte. «Gli ingressi e i percorsi in politica sono due, l’uno porta rapidamente alla fama, non senza rischi, l’altro è più pedestre e lento ma più sicuro. Le masse accolgono con entusiasmo l’esordiente, sazie e nauseate, come gli spettatori di un campionato atletico, dai personaggi consueti». Il rischio però è diventare troppo in fretta un «solito noto» e non avere la capacità e l’esperienza per resistere all’invidia improvvisa delle masse. Non basta il fumo della fama per sopravvivere alla bassa marea del consenso politico.

Plutarco non sopporta i governanti vendicativi, quelli troppo impulsivi, i permalosi, chi non sa quando concedere qualcosa ai propri alleati e trovare quando serve un’intesa con gli avversari, gli ottusi che si affidano solo al pensiero assoluto dell’ideologia e chi pensa di restare al potere solo concedendo benefici al popolino. Non crede che la competizione politica debba riguardare le questioni private e familiari o portare il livello dello scontro oltre quella soglia che non permette un ritorno indietro. La democrazia degenera quando qualcuno si ritrova con le spalle alle muro. «Ai lottatori nelle palestre si avvolgono le mani con bende affinché lo scontro non sia insanabile e i colpi siano morbidi e indolori». Il peccato più grande è utilizzare la giustizia come arma impropria della politica, perché i presunti peccati andrebbero giudicati quando la carica istituzionale è decaduta.

Nell’arte della politica ci sono anche consigli per gli anziani che si ritrovano a governare. È un messaggio che parte da Roma e sembra arrivare direttamente nella Washington di questa stagione. «Chi più fu per i nemici più temibile di Agesilao pur alla fine della vecchiaia?». Ma i vecchi devono rispettare la propria età. «Disse Tiberio che non è un’onta per un ultra settantenne tendere il polso a un medico, ma lo è piuttosto tendere la mano al popolo chiedendo un voto o un’elezione per acclamazione».

Plutarco, in fondo, sembra avere una simpatia per la democrazia aristocratica, che rappresenta l’ideale dei padri della costituzione americana. Non si fida delle masse e pensa che il consenso popolare non sia da solo un segno di saggezza. L’uno ha bisogno degli altri, ma i molti non possono fare a meno del pensiero dei pochi. È qui che vede come centrale il ruolo dei filosofi, degli intellettuali, ma neppure loro sono al di sopra di ogni sospetto. Li invita a occuparsi di politica e a consigliare principi e legislatori, «ma non per interesse personale e nemmeno per ambizione, bensì perché è un loro dovere mettere al servizio della collettività il proprio sapere e la propria saggezza. La virtù e il disinteresse devono essere il punto fermo di ogni approccio alla cosa pubblica».

L’intellettuale da poltrona è il cancro di quella democrazia aristocratica che Plutarco immagina come esempio di governo illuminato.

Era questo, dopo tutto, il segreto di quella liberal democrazia che adesso fatica a ritrovare se stessa.

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