Sarà da vedere se alla fine saranno solo dichiarazioni di forma. Ma sono certamente degne di nota le parole del premier cinese, Li Qiang, all’apertura del Forum sullo sviluppo della Cina che annunciano un Paese pronto ad abbattere le barriere alle imprese straniere intenzionate a investire su Pechino: «Una Cina più aperta offrirà al mondo maggiori opportunità di cooperazione reciprocamente vantaggiosa», ha detto l’uomo di fiducia del presidente Xi Jinping.
Quella di un’economia troppo chiusa e protezionista, infatti, è forse l’obiezione principale che da Occidente è sempre stata mossa alla Cina. Ancora più curioso che questa apertura, che si potrebbe definire epocale, arrivi insieme a un invito della numero uno del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, intervenuta al Forum cinese, appuntamento di due giorni che richiama 400 leader delle principali aziende e organizzazioni internazionali. «La Cina si trova di fronte a un bivio», ha detto l’economista bulgara, «fare affidamento sulle politiche che hanno funzionato in passato, oppure reinventarsi per una nuova era di crescita di alta qualità». Secondo Georgieva, Pechino dovrebbe dare più spazio a «correzioni basate sul mercato» nel settore immobiliare, cruciale ma fortemente indebitato. Le autorità dovrebbero anche aumentare «la capacità di spesa di individui e famiglie» rafforzando il sistema pensionistico cinese e adottando altre misure per affinare il suo vasto apparato di sicurezza sociale. Georgieva ha anche spinto la Cina a rafforzare «l’ambiente imprenditoriale e garantire condizioni di parità tra imprese private e statali». Ma come, la Cina comunista si fa scrivere il programma economico dal capo di un istituto, con sede a Washington, che è uno dei simboli del sistema economico liberista e Occidentale? Un segno di debolezza, forse, ma anche un gesto distensivo che guarda verso gli Stati Uniti.
La crisi immobiliare, simboleggiata dal crac di Evergrande, ha zavorrato un’economia che l’anno scorso è cresciuta del 5,2%, al livello più basso da trent’anni. Alla fine del 2023, gli investimenti diretti esteri di imprese straniere in Cina sono saliti di appena 33 miliardi, al livello più basso dal 1993. Il governo guidato da Xi Jinping ha fissato l’obiettivo di crescita a circa il 5% per quest’anno, ma gli analisti prevedono che l’economia potrebbe rallentare nel medio termine fra crisi immobiliare e declino demografico. Lo stesso Fmi prevede che crescerà «solo» al 3,5% entro il 2028. Troppo poco per l’obiettivo di superare gli Usa come prima potenza economica mondiale e, soprattutto, per un Paese che ha un Pil pro capite ancora molto lontano da quello di un’economia pienamente sviluppata.
Non a caso, il primo ministro cinese ha promesso che Pechino creerà maggiori opportunità per i capitali esteri attraverso politiche macroeconomiche. Musica per le orecchie dei leader aziendali presenti tra cui Tim Cook, capo di Apple, il quale ha detto «penso che la Cina si stia davvero aprendo» e che Cupertino continuerà a investire. Secondo i calcoli di Georgieva, con un «pacchetto completo di riforme a favore del mercato la Cina potrebbe aggiungere il 20% o 3,5 trilioni di dollari alla sua economia nei prossimi 15 anni».
Forse, quindi, vale la pena di essere un po’ meno comunisti.