Alexei Navalny è morto ormai da un mese, ma continua a far paura a Vladimir Putin come quando era vivo. Una paura forse eccessiva, dal momento che le cosiddette elezioni presidenziali russe sono truccate in modo tale da rendere impossibile qualsiasi sorpresa per l’uomo che deve essere rieletto e lo sarà: naturalmente con un plebiscito attorno all’80%, per poter raccontare al mondo la pietosa bugia di un popolo stretto accanto al suo Leader Eterno e guerriero. Eppure, anche se Navalny giace in una tomba (che tanti moscoviti continuano a coprire di fiori) nel cimitero di Borisov, le indicazioni che era riuscito a trasmettere agli elettori dal remoto penitenziario Lupo Polare, dove è stato messo a tacere per sempre, preoccupano Putin al punto di minacciare otto anni di galera a chi volesse seguirle.
Proprio così: otto anni di carcere è quanto prevede una nuova legge, in corso di rapida approvazione alla Duma di Mosca, per chi oggi a mezzogiorno tenterà di manifestare la sua opposizione al regime. Perché questo aveva chiesto Navalny: trasformare il mezzogiorno della fredda domenica 17 marzo, ultimo dei tre giorni di chiamata alle urne per rieleggere Putin, in un mezzogiorno di fuoco contro di lui. La vedova Yulia, che ha raccolto dall’esilio il testimone del suo impegno politico, ha ripetuto le possibili modalità di quello che comunque potrà essere solo un gesto simbolico, dal momento che nessun vero candidato di opposizione è stato ammesso: anzitutto presentarsi in massa alle 12 nei seggi di tutto il Paese per dare dimostrazione fisica dell’esistenza di una Russia che resiste senza paura. Dopodiché, scegliere tra: votare per qualsiasi «avversario» di Putin, oppure annullare la scheda scrivendo a grossi caratteri «Navalny», oppure ancora, semplicemente, attardarsi nei locali elettorali e boicottare il voto.
Quest’ultima è l’opzione più rischiosa: i poliziotti di guardia ai seggi sono stati istruiti a impedire ogni manifestazione di protesta e ne seguiranno arresti, processi e pesantissime condanne. Le minacce a chi è già noto alle autorità moscovite come oppositore di Putin sono state esplicitate in anticipo con subdola intimidazione: un messaggio anonimo inviato sulle app Telegram e Signal. Vi si invita a partecipare al voto «in modo calmo e senza code o provocazioni», e con finta cortesia si aggiunge che «siamo contenti che voterai a Mosca, indipendentemente dal fatto che sostieni idee di organizzazioni estremiste». Il senso del messaggio è una chiara minaccia: sappiamo chi sei e cosa pensi di noi, ti teniamo d’occhio e se ti presenterai al seggio evita di protestare «in modalità Navalny» o la pagherai cara.
Navalny insomma fa ancora paura, soprattutto nelle due grandi metropoli Mosca e San Pietroburgo, dove la propaganda del regime fa meno presa. Lo dimostrano involontariamente due «cani da guardia» di Vladimir Putin, la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova e l’ex presidente federale Dmitry Medvedev. La prima accusa l’Occidente di aver cercato in ogni modo di condizionare il voto in Russia, mentre il secondo, come d’abitudine, ha spinto al parossismo il registro delle minacce, suggerendo addirittura vent’anni di galera per alto tradimento a chi danneggia le urne con vernice o altro.
Perfino il calendario offre occasioni di polemica. Il presidente ucraino Zelensky ha ricordato che il voto coincide con il secondo anniversario della strage al Teatro di Mariupol, mentre il ministro russo degli Esteri Lavrov ha preferito ricordare il decimo dell’annessione «definitiva» della Crimea.