Liliana Resinovich potrebbe essere stata uccisa da un soggetto finora estraneo alle indagini, un uomo jolly che potrebbe aver rapito e segregato la donna, ritrovata morta in un bosco a Trieste tre settimane dopo la sua scomparsa ma che invece, secondo la Procura, si sarebbe suicidata.
Ne è convinto il criminologo Carmelo Lavorino, che ha raccontato le sue intuizioni nel libro di Rino Casazza «Liliana Resinovich – L’enigma di Trieste» (Algama editore) disponibile su Amazon. Un’ipotesi che secondo il criminologo si basa su «un ragionamento logico e su un criterio-principio investigativo, da me individuato, perfezionato e stabilito». Liliana Resinovich è sparita la mattina del 14 dicembre 2021. Secondo Claudio Sterpin, che aveva parlato con lei al telefono prima che uscisse, aveva in programma di passare dal negozio della Wind di via Battisti. Come sappiamo dalle immagini delle telecamere, il tragitto della donna da casa sua fino a Piazza Gioberti, confermato anche dalla testimonianza della fruttivendola, la donna si muoveva effettivamente in quella direzione. Tuttavia al negozio Wind non è mai arrivata.
Perché non aveva il suo cellulare? Lo aveva con sé e chi l’ha uccisa lo ha riportato a casa sua per depistare? «Sappiamo che la Resinovich arriva in Piazza Gioberti poi fa perdere le proprie tracce. È verosimile – prosegue Lavorino nella sua intervista all’autore del libro – che alla base della sparizione di Liliana per le tre settimane successive ci sia un incontro pericoloso con un “predatore”. Con questa definizione intendo un soggetto capace di usare non solo la forza, ma anche la capacità di convinzione o di seduzione». Un uomo che potrebbe averla convinta, con la forza o con la persuasione, a seguirlo, «verosimilmente sulla sua auto fino a una destinazione ignota», dove Liliana potrebbe essere «rimasta nascosta fino alla morte, ai primi di gennaio». Possibile che gli inquirenti non abbiano preso in considerazione questo scenario?, si chiede Casazza: «A mio modo di vedere il predatore mantiene Liliana, se non proprio segregata, sotto il proprio dominio, tanto che la spossessa del cellulare e, usando le sue chiavi, entra nell’appartamento di via Verrocchio mentre il marito è fuori casa, e vi lascia l’apparecchio, depistando così le indagini». Lo stesso presunto predatore potrebbe poi aver trasportato il cadavere di Liliana nel Parco San Giovanni, «dopo che la donna, per disperazione, si è suicidata – magari è lui ad averla spinta verso quel baratro – oppure l’ha uccisa approfittando di un malore, organizzando la messinscena che gli investigatori si trovano davanti il 5 gennaio». Sempre secondo Lavorino il luogo del ritrovamento, «trovandosi nei pressi di un ex ospedale psichiatrico, potrebbe avere un valore simbolico. Peraltro si tratta di un luogo che Liliana frequentava spesso». Ci sono troppi quesiti rispetto a questo scenario che meriterebbero delle risposte: «Non è la soluzione, ma un’ipotesi investigativa da verificare», ribadisce il criminologo, secondo cui ci sono «forti elementi che smentiscono l’ipotesi suicidaria come il foro nella rete, la controversa impronta di un guanto sul sacco e la mancanza di impronte di Liliana sui sacchi della spazzatura che ricoprivano il cadavere», visto che la donna non indossava guanti. «Ma se si è suicidata, vi si deve esser infilata toccandoli con i polpastrelli nei punti necessari per compiere l’operazione, ovvero i bordi sia esterni che interni degli involucri».
Ma chi aveva interesse alla sua morte, tanto da eventualmente commissionarne il delitto, chi avrebbe «manipolato, allestito e confezionato il corpo di Liliana, verosimilmente non da solo», secondo Lavorino? «Sicuramente è un soggetto necromane ossessivo, che ama manipolare i morti e che ha agito per interesse psicologico (odio, per vendetta, per ritorsione, per gelosia, per sesso) e/o economico e/o biologico». Poi Lavorino rivela dei possibili punti di contatto tra il possibile assassino della Resinovich e il killer di Serena Mollicone, la vittima del giallo di Arce che vede alla sbarra Marco Mottola, il figlio del maresciallo comandante la locale caserma dei carabinieri che Lavorino difende. «Entrambe avevano il volto coperto da buste con un mezzo di legamento. Entrambe manipolate, trattate, confezionate, trasportate, messe in posa e abbondante in località silvestre con gli ovvi rischi derivanti da tali azioni. Anche l’assassino di Serena è entrato nell’abitazione della vittima grazie al possesso delle chiavi e ha lasciato in un cassetto il telefonino cellulare della vittima, ha depistato seguendo il decorso delle indagini, ha preferito correre i rischi del confezionamento, trasporto e collocazione del corpo in una località boschiva particolare per i suoi significati simbolici e pratici», è la conclusione del criminologo. Parole che lanciano una luce sinistra su entrambe le vicende giudiziarie, di fatto ancora senza un colpevole.