Su Corrado Alvaro, uno dei maggiori intellettuali del ‘900, pesa ancora la favola della dimenticanza, o almeno l’equivoco che lo relegherebbe al rango di autore macchiettistico, con l’ansia dell’oleografia paesana e circoscritto a qualche angolo del Sud Italia, quando invece fu tutt’altro. Scrittore, poeta, drammaturgo, sceneggiatore, traduttore, giornalista, conduttore radiofonico: Alvaro ha segnato un secolo di cultura europea, partendo dal piccolo centro calabrese di San Luca, dove nacque, e percorrendo in lungo e in largo il nostro Paese come il resto del mondo. Un eclettismo innato il suo, ma che è andato via via sbiadendo, tanto da toccare veri e propri apici di trascuratezza: come quello verificatosi qualche anno fa, a Vibo Valentia, quando ci si stava per disfare di numerosi inediti dell’autore. Salvati in extremis da Gilberto Floriani, ex direttore del Sistema Bibliotecario Vibonese, quei documenti sarebbero poi finiti nelle mani di Vito Teti, uno dei più autorevoli antropologi italiani viventi, anche lui calabrese e appassionato estimatore di Alvaro.
«Di che materiale parliamo?» gli chiedo. «È una raccolta notevole: poesie, fotografie, testi teatrali. C’è perfino un abbozzo di Gente in Aspromonte, l’opera più nota di Alvaro; e ovviamente lettere: tante, tantissime lettere, che gettano una nuova luce sulla vita dell’autore». «Cos’ha provato, leggendole?». «Mi sono emozionato, non lo nego. C’è per esempio la corrispondenza tra Alvaro e due suoi amici, dell’epoca in cui frequentavano il liceo Galluppi di Catanzaro, un periodo importantissimo e di cui non si sapeva quasi nulla; c’è poi un sostanzioso gruppo di missive indirizzate alla contessina Ottavia Puccini, con la quale l’autore si fidanzò prima di partire per il fronte, nel 1914, e con la quale dialogò fino a guerra finita». Quest’ultimo è uno dei nuclei manoscritti più interessanti, che io stessa ho potuto visionare e che è stato diffuso finora solo in forma parziale. Alvaro è appena un ragazzo, dopo l’addestramento a Firenze parte per il Carso ed è nominato sottufficiale. A Ottavia Puccini descrive le trincee piene di granate, sangue e uomini «ancora in ginocchio col fucile tra le feritoie». Parla di quella quotidianità fatta di fame e sigarette, ricorda le urla disperate e gli aerei in volo sui campi di battaglia, confessa perfino di poter leggere «un po’ di salmi cristiani» e di aver messo da parte ogni altro libro, ma non senza risentimento. «Ho fatto una poesia contro i poeti» dirà alla donna, in una lettera datata 16 settembre 1915, «se potessi impianterei una vendita di stoffe o di esplosivi o di trebbiatrici. I poeti! Peuh! Mi vergogno per loro».
È l’Alvaro ancora irredentista a parlare, l’Alvaro irruento che rendiconta le tappe di quell’esperienza atroce, che cambierà lui come ogni altro soldato per sempre. «Quel conflitto lo illuminò sull’Italia del tempo» precisa Vito Teti, «quindi anche su certi letterati, che non imbracciavano le armi ma teorizzavano da lontano, capivano poco o niente di quello che accadeva eppure volevano a tutti i costi insegnare qualcosa: questo, Alvaro lo trovava inaccettabile, da qui il suo atteggiamento demitizzante». Le carte esaminate da Teti approfondiscono inoltre i rapporti con la famiglia, specie col padre, soprannominato «il cavaliere», contro il quale lo scrittore non farà che ribellarsi: un cliché in fin dei conti, che tuttavia traduce bene la rivolta di Alvaro, la sua contestazione dell’autorità, il suo andare avanti per parricidi mentali da leggere però in senso ampio, come polemica verso il luogo d’origine, come prolungamento di una lacerazione, che dai territori passa alle relazioni e dalle relazioni alle identità. «Alvaro capisce subito che un mondo sta per finire» aggiunge Teti. «E lui è cresciuto in quel mondo, composto da nient’altro che da agricoltori ed archetipi, cioè da cicli eterni, che si ripetono da millenni. Con tremenda lucidità ne diagnostica la morte, ne vede il crepuscolo e lo mette nero su bianco, in tutti i suoi libri».
Dunque con trent’anni d’anticipo su Pasolini, che lamentava la perdita della società preindustriale, Alvaro colse i rischi della mondializzazione e profetizzò i malanni del consumismo. «Definisco Alvaro il Pasolini pre-Pasolini» continua Vito Teti. «Del resto Alvaro fu il primo a parlare di civiltà contadina: concetto su cui in seguito sarebbero tornati in tanti, pensiamo solo a Carlo Levi». «Anche Alvaro era scisso fra tradizione e innovazione?». «Certo. Ed era a modo suo moderno e antimoderno. Le faccio un esempio: da un lato si preoccupava della tecnologia, che secondo lui avrebbe stravolto l’umanità; dall’altro biasimava certa letteratura localistica: in Un treno del Sud (1958), rimproverava agli intellettuali calabresi di essere retorici, magnificando le colonie magnogreche di Locri e Sibari, e apparendo così anacronistici rispetto ai braccianti, che invece partivano per l’estero e apparivano molto più aperti, molto più moderni di loro». «Si riflette anche su questo negli scritti che conserva?». «Inevitabilmente. Ci troviamo davanti all’Alvaro ventenne, in cui però è tutto in nuce. Già allora lui pensava allo straniamento dell’uomo, al suo non avere una meta e alla perdita delle proprie radici, allo smarrimento della sacralità. Emergono poi le considerazioni sulla memoria e l’infanzia, due temi che l’ossessioneranno». «Mi viene in mente il romanzo L’età breve, del ’46». «Sì. Un’opera emblematica fin dal titolo, testimone di quanto Alvaro abbia scommesso tutto sull’universo infantile». «Mentre la memoria?». «È l’altra faccia della medaglia. È la pietas, la nostalgia, l’amore con cui Alvaro guarda sé stesso e gli altri, guarda il nuovo mondo che sta arrivando ma anche il vecchio, che gli ha dato la vita, e che perciò vuole custodire». «Questi scritti ancora sconosciuti le hanno fatto cambiare idea su qualcosa?». «Mi hanno fatto consolidare delle prospettive, e non è poco. Ho poi compreso meglio la Calabria, che è sempre terra di enormi slanci ed enormi apatie. Mi sembra che la Calabria sia immersa in una geoantropologia della contraddizione che non trova risoluzione… e quando ci riesce, cioè trova una sintesi nelle grandi menti, ecco che lì abbiamo il meglio: in Gioacchino da Fiore, in Tommaso Campanella, e naturalmente in Corrado Alvaro».
Lo scrittore morirà nel ’56, a Roma, vegliato da una giovane Cristina Campo in una casa dietro piazza di Spagna. Sulla parete c’è ancora una targa commemorativa, un pezzo di marmo che stride con quella che fu l’indole di Alvaro, sempre irrequieto, sempre migrante, sempre alle prese con una lotta e quindi con una speranza, come documenta anche il corpus di Vito Teti: in questa sorta di annali giovanili, Alvaro dice addio a un’era mentre ne inaugura un’altra, che gli avrebbe permesso di continuare ad esistere, ad andare avanti con le proprie gambe, come scriverà. Perché occorre camminare nonostante tutto, perché «camminare voleva dire essere vivi».