Un altro Ferragosto di Paolo Virzì, il seguito dell’acclamato “Ferie d’Agosto”, mette in scena una coralità umana apocalittica che è un capolavoro: più sfaccettata che nel primo film e di esilarante concretezza.
Il titolo del 1996, poi divenuto cult, valse a Virzì il David di Donatello come miglior film e aveva dentro non solo l’Italia di quegli anni ma anticipava quella che sarebbe venuta dopo. Il punto è che “Un altro Ferragosto” rileva un’evidenza scomoda: sono trascorsi quasi tre decenni e tutto è rimasto più o meno uguale. Certo, ci sono i telefonini, i social e così via ma al netto del cambiamento di costume connesso al progresso tecnologico, l’essere umano non si è evoluto.
Altiero Molino (Andrea Carpenzano) è un ventiseienne imprenditore digitale che organizza un’ultima vacanza al padre malato terminale, il giornalista Sandro (Silvio Orlando), e decide di ambientarla nella casa di Ventotene che al genitore divenne cara quando la compagna Cecilia (Laura Morante) gli rivelò di essere incinta. Con loro, tutti i vecchi amici di un tempo e qualche nuovo arrivo. Peccato che l’isola sia inaspettatamente in fermento per il matrimonio di Sabry Mazzalupi (Anna Ferraioli Ravel), divenuta celebre influencer, col suo fidanzato Cesare (Vinicio Marchioni), malvisto dalla di lei zia (Sabrina Ferilli), vedova e riaccompagnata a un ambiguo soggetto (Christian De Sica). Mamma Luciana (Paola Tiziana Cruciani), invece, spezzata dalla morte del marito, non è più molto in sé. Le nozze sono un evento mondano che monopolizza gli spazi e attira i media. Come avvenuto trent’anni prima, i due nuclei familiari apparentemente inconciliabili sono destinati a entrare in rotta di collisione.
Il punto di osservazione in “Un altro Ferragosto” non è tanto sull’incontro e scontro tra due famiglie ideologicamente agli antipodi, quanto sulla lotta che ogni essere umano si trova a vivere per il solo fatto di essere al mondo.
Che si tratti di individui progressisti e intellettuali oppure qualunquisti e volgari, tutti sembrano appartenere al partito universale dell’insoddisfazione e mancata felicità. Si arrabattano sotto il giogo del ridicolo e del tragico, le due facce dell’esistenza da cui ognuno è in fuga perenne e inutile. Non c’è orientamento politico o sessuale, successo raggiunto o fallimento conclamato, a fare la differenza. La disillusione sulla strada che percorriamo in cerca della felicità è la stessa per tutti, solo declinata in maniera diversa.
Virzì ha un modo tutto suo di mettere di fronte a questa evidenza intrinsecamente triste, facendo sì che ci specchiamo in essa ma ci venga anche da ridere di come, in maniera sguaiata, ognuno si barcameni a essere il protagonista del proprio film. La statura dell’insieme ricorda più che mai quanto scritto oltre quattro secoli fa da Shakespeare circa il mondo come palcoscenico e le sette età della vita. Il regista livornese in più ci mette il sorriso assolato (ci perdoni la mancata “igiene lessicale”), ma anche un’italianità che è pungente miscuglio di vizi e virtù (buffo che il cognome Virzì somigli a una specie di acronimo dei due termini).
Solo un personaggio secondario, che ha fatto di quel lembo di terra circondato da acqua la propria casa, sembra avere abbracciato la serenità, il cui segreto forse è restare fedeli a gentilezza e purezza d’animo, in controtendenza al mondo e quindi anche a costo di sembrare falliti e ridicoli.
E poi c’è il mare, “coso” come lo chiama chi ormai è dimentico di quasi tutto ma non dell’anelito a trovarsi di fronte a lui. Il mare nei film di Virzì è spettatore impassibile ma anche un altare in senso etimologico e quindi richiamante il convito sacrificale. Tutti immolano la propria esistenza a qualche causa o ricerca di realizzazione e anche chi sembra essere un vincente non è che una vittima trionfale. Verso il mare si orienta lo sguardo degli “oranti”, perché il mare è invocazione e attesa, purifica e rende sacramentale il sacrificio, illumina e riconcilia. Non stupisce che la rappresentazione della vita venga affidata da Virzì a un microcosmo lambito completamente da esso.
Meraviglioso tutto. I frammenti di “Ferie d’agosto”, poi, sono sussulti di bellezza incontaminata e struggente.
Come diventeremo? La fragilità guarisce con l’età? “Un altro Ferragosto” sembra dire che le caratteristiche individuali si incancreniscono con il passare del tempo e che quindi, nel complesso, non deve stupire che l’intera umanità diventi sempre più caricaturale.
Della vita nessuno capisce niente, “ma da mo’!”, per dirla come Fantastichini nella battuta immortale del primo film; eppure, tragicomico e malinconico, lo spettacolo va avanti.