Per la maggior parte degli spettatori il nome di Marco D’Amore continuerà ad essere associato al fenomeno seriale di Gomorra, la serie tv di Netflix che ha lanciato la sua carriera e lo ha trasformato in un volto riconoscibile. Ma, negli anni, Marco D’Amore ha dimostrato di volere molto altro dalla sua carriera, di essere un professionista che spazia, che sperimenta, pur rimanendo fedele al suo percorso e alle sue radici. Il risultato di questa ambizione è Caracas, lungometraggio che arriva in sala il 29 febbraio e rappresenta la seconda prova registica nell’ambito fiction dell’autore partenopeo, dopo L’Immortale (2019). Tratto dal romanzo Napoli Ferrovia di Ermanno Rea, Caracas è un film che non può fare a meno di Napoli, della sua cultura, del suo cuore e di quel certo modo di vedere al mondo che è unico e radicato nelle radici di tradizioni che sono immortali.
In Caracas, però, Napoli si fa teatro e sfondo di un mondo in bilico, sempre più orientato verso l’oscurità, lo scetticismo e tutto ciò che di putrido c’è nell’animo umano. Il giornalista Giordano Fonte (interpretato da un sempre straordinario Toni Servillo) torna a Napoli dopo aver vissuto altrove per molto tempo e la città tentacolare che si spalanca ai suoi occhi è qualcosa che non conosce più, nella quale si riconosce a malapena, e che tuttavia conserva quella sua bellezza decadente che lo affascina e lo attira a sé. Mentre è alla ricerca del bandolo della matassa che possa aiutarlo a decodificare i cambiamenti del tempo e della società, Giordano comincia a frequentare Caracas (Marco D’Amore), un personaggio fatto di contraddizioni, che milita nell’estrema destra e si sta avvicinando all’Islam, che è innamorato di Yasmina (Lina Camélia Lumbroso), una donna bellissima e impossibile, che si sta arrendendo alla droga e sembra una di quelle fiamme destinate a estinguersi in fretta. Tre personaggi distrutti, insicuri, alla ricerca di una verità che forse non esiste e che si trovano collegati in una notte che, forse, non è senza via d’uscita.
Caracas è un film oscuro, pieno di un devastante pessismo che, tuttavia, non riesce a sconfiggere la naturale tensione dei personaggi a cercare una via di fuga all’inferno che si sono costruiti con le proprie mani. In qualche modo Marco D’Amore punta a portare sul grande schermo il fallimento di un certo tipo di intellettuale, di quello che cerca di elevarsi senza riuscire a vedere che c’è bellezza anche dove essa non dovrebbe esistere. Allo stesso modo, il regista, interprete e co-autore della sceneggiatura suggerisce anche che a volte la poesia si trova nei luoghi in cui non vogliamo guardare, in quegli angoli marci che sembrano parlare solo di fallimento: ma chi lo ha detto che il fallimento non possa essere, a sua volta, terreno fertile per far fiorire qualcosa di prezioso? Caracas è lontano dall’essere un film perfetto: spesso pecca di una mancanza di equilibrio, come se il regista volesse raccontare troppo, tutto nello stesso momento: dalla violenza ai voli pindarici di uno scrittore che, a dispetto di quello che afferma, non può fare a meno di scrivere. A volte c’è il rischio di qualche ripetizione di troppo, che potrebbe indispettire chi è seduto in poltrona. Allo stesso tempo, però, D’Amore riesce a creare un universo diegetico ambivalente e inaffidabile, dove il pubblico stesso – così come i protagonisti – non sa a cosa credere, non sa se potersi fidare di quello che viene mostrato sul grande schermo. Realtà, finzione e sogno sono i tre vertici di triangolo narrativo in cui il regista fa muovere i suoi protagonisti, tutti alla ricerca della propria verità, dove perdersi significa ritrovarsi e viceversa.