Siamo destinati al fallimento, eppure anche in questo ci vuole del genio. Falliti è una parola che nessuno insegna alle nuove generazioni, catalogando l’errore come vergogna, anche se di errori è fatto il mondo e, dunque, il successo. Che poi diventa progresso se c’è di mezzo la scienza. Invece un genio nel suo campo, ovvero Michael Jordan, ha sempre giustificato la sua gloria con una ricetta semplice: «Ho sbagliato così tante volte nella mia carriera, che alla fine ho vinto tutto». Ed anche se in fondo il suo mestiere, il giocatore di basket, non ha cambiato il mondo (mettere un pallone in un canestro ha semmai cambiato le sorti del suo portafoglio ed anche del nostro, visto che le scarpe col suo nome sono ai nostri piedi), Jordan sarebbe stato un ottimo fisico, leggendo quanto racconta uno che invece di professione fa proprio quello.
Piero Martin è docente di fisica sperimentale all’Università di Padova ed anche il responsabile scientifico del progetto DTT, ovvero l’esperimento sulla fusione nucleare in corso di sviluppo a Frascati, e questo sì, probabilmente finirà per modificare (in meglio) il nostro futuro. Nel frattempo, essendo uno scienziato di grande rigore, ottima penna e gradevole sense of humor, racconta in Storie di errori memorabili (Laterza, pagg. 180, euro 18) come sarebbe cambiata in peggio la nostra esistenza se il fallimento non avesse accompagnato l’umanità. A cominciare (e questo è un po’ meno scientifico), dal fatto che se Sting non si fosse seduto per sbaglio su un pianoforte credendolo chiuso, i suoi Police non avrebbero mai prodotto quel suono bitonale di Roxanne che accompagna le nostre giornate da quasi 45 anni. Rallegrandole, peraltro.
Parlando di cose più serie, l’assunto di Martin è che qualsiasi inciampo nelle scoperte dell’umanità ha prodotto una reazione temporale che ci ha indirizzati fin qui, con un’accelerazione degli eventi ed anche una deviazione della Storia che in fondo, fra tanti errori e altrettante nefandezze, avrebbe potuto portarci a molto peggio. Pensiamo infatti se Adolf Hitler avesse evitato di espellere tutti i fisici ebrei dagli istituti di ricerca tedeschi, mettendo in mano all’America la soluzione per la bomba atomica con la quale avrebbe potuto dominare il mondo (sul tema c’è anche Enrico Fermi che in un primo tempo ignorò di aver scoperto il meccanismo della fissione, pensando di aver trovato invece un elemento dell’uranio con peso atomico superiore al massimo conosciuto). Oppure cosa sarebbe successo se la morte di Guglielmo Marconi nel 1937 non avesse condizionato la decisione di un Benito Mussolini, già poco interessato, di non investire nel «telemobiloscopio» che l’ingegner Ugo Tiberio stava sviluppando con tanto entusiasmo e pochi fondi. Il 28 marzo 1941 l’incrociatore «Fiume» colò a picco a Capo Matapan dopo essere stato colpito dalla Marina britannica, e quella notte morirono in battaglia circa 2300 soldati italiani. Da lì l’infallibilità del Ventennio cominciò a creparsi, perché i nemici – invece – avevano il radar. La scienza, insomma, non è così distante dalla realtà. E gli scienziati non sono certo lontani dall’essere uomini, solo che di solito lo fanno un po’ meglio.
Albert Einstein, per dire, fu costretto ad ammettere di aver ottenuto il premio Nobel per una considerazione errata (lo fece con grande onestà mettendolo per iscritto), ovvero che l’universo fosse statico e servisse una costante cosmologica per spiegare il suo apparente movimento, che apparente non era. Ed anche Heinrich Hertz, quando scoprì le onde elettromagnetiche più basse e invisibili rispetto a quelle della luce, giudicò che queste «non avrebbero portato alcun beneficio in futuro». Chissà cosa avrebbe detto vedendo oggi l’Homo Tecnologicus capace di ascoltare tv e radio contemporaneamente, mentre con una mano tiene lo smartphone e con l’altra inserisce un piatto nel microonde (il sospetto è che avesse ragione lui). Errare è umano, perseverare nel nascondere questo concetto è il presente diabolico. Eppure basta poco per capire la grandezza dell’errore, nel bene e nel male.
Come quelli molto semplici di traduzione e un esempio è quando alla fine della Seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica inviò una proposta di resa onorevole al Giappone, a cui il premier Suzuki rispose dicendo ai giornalisti «mokusatsu», espressione che significa «no comment» e che sfortunatamente fu tradotta «non è degno di nota»: Hiroshima e Nagasaki, nel primo caso sarebbero rimaste vive. Più strambo è quello dell’anonimo traduttore che a metà dell’Ottocento tradusse gli studi su Marte di Schiaparelli: la parola «canali» diventò «canals» invece di «channels», e dunque tutti pensarono che li avesse fatti qualcuno. Così nacquero i marziani, e in questo caso ci siamo almeno molto divertiti. D’altronde, come spiega Piero Martin, «viviamo in un mondo che con l’errore ha un rapporto difficile. Scoprire che anche i grandi della scienza hanno sbagliato sarà un’iniezione di ottimismo». Sarebbe da raccontare, magari cominciando dalla scuola, tra una verifica e l’altra.