I troll pro Putin colpiscono ancora? La certezza non può esserci, a meno di una rivendicazione, ma la probabilità che dietro l’attacco all’account X di Yulia Navalnaya, la vedova di Alexei Navalny, ci sia la propaganda del Cremlino è molto alta. Un vero e proprio «abuse reporting bombing», parafrasando il termine mail bombing, quello contro la moglie del dissidente morto in circostanze ancora da chiarire in un carcere della Siberia.
Di certo c’è solo che per poche decine di minuti, meno di un’ora, il suo profilo è risultato irraggiungibile. «Sospendiamo gli account che violano le regole di X», campeggiava sulla pagina dove dal 19 febbraio la Navalnaya ha portato avanti la lotta politica del marito attraverso post e video che accusavano direttamente il presidente russo.
L’ultimo, prima di essere oscurata, mostrava l’appello della madre del dissidente che chiedeva a Mosca di restituire il cadavere del figlio.
«Un errore», ammettono dalla piattaforma di Elon Musk dopo aver ripristinato la pagina. «Il meccanismo di difesa contro la manipolazione e lo spam della nostra piattaforma ha erroneamente segnalato che @yulia_navalnaya violava le nostre regole», si sono infatti limitati a spiegare da X senza ulteriori dettagli, «Abbiamo immediatamente ripristinato l’account».
Our platform’s defense mechanism against manipulation and spam mistakenly flagged @yulia_navalnaya as violating our rules. We unsuspended the account as soon as we became aware of the error, and will be updating the defense.
— Safety (@Safety) February 20, 2024
Difficile, dicevamo, sostenere che si sia trattato di una censura volontaria. Soprattutto con un personaggio così sotto i riflettori. Ma allora cos’è successo? Bisogna partire dai motivi ufficiali per cui il social può punire un account, e cioè lo spam, le questioni di sicurezza, i post o i comportamenti offensivi.
Due in particolare i meccanismi attraverso i quali si rischia di essere oscurati. Innanzitutto è possibile che all’interno dei post o dei contenuti multimediali condivisi siano scritti o pronunciati dei termini in «lista nera» (ad esempio «odio», «morte», «suicidio», ecc.) o immagini violente o sanguinarie. In questo caso è un algoritmo a identificarli e chiedere ulteriori verifiche.
Ma è più probabile che in questo caso sia scattato un altro automatismo, sfruttato dai troll russi e da bot creati per rilanciare la campagna a favore di Putin e zittire gli oppositori. L’account potrebbe essere stato infatti segnalato in massa per spam o contenuti violenti. Un vero e proprio «bombardamento» virtuale che ha mandato il profilo della vedova Navalny in un «limbo» dal quale si esce solo dopo che un team dedicato (e stavolta composto da esseri umani e non da algoritmi) analizza la situazione e decide se si è meritevoli o meno di restare sul social.
Insomma, un automatismo in cui possiamo incappare tutti. Certo, se si è un personaggio esposto, magari basta il clamore mediatico per veder tornare il proprio profilo. Mentre i comuni mortali devono passare per la conferma dei propri dati o aprire una contestazione. E sperare di convincere il team di moderazione di non aver violato le regole.
Non è la prima volta che la propaganda russa sfrutta la tecnologia per condizionare l’opinione pubblica, silenziare le voci contrarie o persino minacciare chi contesta l’operato di Mosca. Basti pensare ai casi di deepfake che hanno caratterizzato la guerra in Ucraina o i numerosi attacchi hacker degli ultimi anni.
Ora la battaglia infiamma anche sui social.