Nuovo caso di #MeToo negli Stati Uniti. Al centro delle polemiche c’è Yascha Mounk, 41 anni, stimato studioso e professore associato di affari internazionali presso la School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University a Washington, D.C, critico del fenomeno della cancel culture e dell’isterismo “woke”, e per questo inviso a molti ambienti progressisti, che si è visto interrompere la sua collaborazione con la testata liberal The Atlantic dopo che la scrittrice Celeste Marcus lo ha accusato di violenza sessuale che sarebbe avvenuta durante un pigiama party, due anni e mezzo fa, attraverso un post pubblicato su X. Ancor prima che Mounk venisse giudicato da un tribunale, la rivista ha comunicato ai suoi lettori di non aver pubblicato nessun nuovo articolo del politologo nato in Germania quando è “venuta a conoscenza delle accuse“. Dal canto suo Mounk ha dichiarato al Washington Post di essere a conoscernza “dell’orrenda accusa contro di me. È categoricamente falsa“.
L’accusa contro il politologo anti-woke: ma manca la denuncia
Per ricostruire la vicenda, occorre però fare un passo indietro. Il mese scorso Celeste Marcus ha scritto del suo presunto stupro su Liberties, una rivista letteraria che lei stessa dirige. Ha anche informato privatamente i direttori dell’Atlantic Jeffrey Goldberg e Adrienne LaFrance che il suo “stupratore” collaborava con la loro rivista. Goldberg le ha risposto che “stiamo prendendo questa accusa molto seriamente“. Dopo qualche settimana, Marcus ha pubblicato un post su X, in cui ha accusato apertamente il politologo di stupro, lamentandosi di non aver ricevuto aggiornamenti da Goldberg: quest’ultimo ha così confermato di aver interrotto i rapporti lavorativi con Mounk.
È naturalmente impossibile sapere cosa sia successo tra Marcus e Mounk durante quel pigiama party di due anni e mezzo fa: se quel rapporto sessuale, se c’è davvero stato, è stato consensuale oppure no. Una cosa è certa, però: il semplice sospetto non è un motivo sufficiente per punire e demonizzare uno studioso che, al momento, non è stato condannato da alcun tribunale. Anzi. Se la scrittrice ritiene di essere stata stuprata, avrebbe dovuto denunciare il fatto alla polizia o citare Mounk in tribunale. Invece non lo ha fatto, optando altresì per la gogna pubblica del #MeToo. Che non può certo sostituirsi alla giustizia ordinaria.
Il #MeToo resiste
Il fenomeno #MeToo sembrava essersi eclissato definitivamente con la vittoria in tribunale di Johnny Depp contro l’attrice ed ex compagna Amber Heard. Un passaggio fondamentale che ha rafforzato una tesi che sembrava una banalità, ma che era diventata una tesi rivoluzionaria rispetto alla cultura del sospetto del #MeToo: ossia che non tutte le accuse mosse contro una persona – in particolare, contro gli uomini – sono fondate e che una persona accusata non è per forza di cose colpevole, soprattutto se parliamo di fatti avvenuti diversi anni, se non decenni prima. Un principio cardine in uno stado di diritto, dove un’accusa deve essere innanzitutto dimostra e la stampa non può sostituirsi alla giustizia. Purtroppo, però, il #MeToo sembra resistere, come in questo caso, dove uno stimato studioso viene accusato via social di un’accusa gravissima ma non viene nemmeno denunciato in tribunale.
Il movimento #MeToo, nota in un’analisi il sito britannico Spiked, sembrava aver raggiunto l’apice qualche anno fa, ma resiste, “così come la cultura woke in generale. I sostenitori della libertà di parola hanno avuto raccolto dei successi recente nel criticare, se non frenare, il suo regno nei campus americani, alcuni dei quali stanno iniziando a riconoscere le virtù del dissenso e del dibattito“. Ma l’ostilità dei “progressisti” verso libertà di parola e al giusto processo “per le persone accusate di discriminazione o di cattiva condotta sessuale” non sembra essersi fermata. Così come la cultura del sospetto, che in questo caso sembra aver prevalso sul buon senso.