Che la questione dei fondi all’Alleanza atlantica fosse un nervo scoperto, dentro l’Ue lo sapevano tutti. Ma che un ex presidente americano si mettesse a sparger sale su una ferita mai curata (e forse un po’ occultata nel Vecchio continente in favore d’un più confortevole dibattito sulla creazione di un esercito comune europeo) non se lo aspettava nessuno. Né chi sta scegliendo di rimpolpare le casse delle rispettive Difese. Né chi preferisce anteporre ai «conti» sul Patto atlantico (che Macron definì già nel 2019 «in stato di morte cerebrale») gli effetti su Pil e bilancio della crisi ucraina, mediorientale e ora di Suez (non senza calcoli elettorali). Fatto sta che solo 11 membri Nato su 31 spendono il 2% del Pil come da accordi. Trump ha quindi ribadito che in caso di attacco russo non li difenderebbe finché non centrano il target (deciso nel 2014) entro il 2024, anno in cui il tycoon potrebbe essere rieletto.
La risposta non s’è fatta attendere, da Bruxelles: «Dichiarazioni avventate, servono solo agli interessi di Putin e non portano più sicurezza», è l’affondo del presidente del Consiglio europeo, Michel, che stigmatizza la special relationship fra Trump Tower e Cremlino. La questione dei fondi è però centrale. Perché oltre agli Usa che versano il 3,49%, solo Polonia (che va verso il 4%), Grecia (3,01%), Estonia (2,73%), Lituania (2,54%), Finlandia (2,45%), Romania (2,44%), Ungheria (2,43%), Lettonia (2,27%), Regno Unito (2,07%) e Slovacchia (2,03%) sono in linea. Helsinki, new entry dall’aprile scorso, si è messa in pari vista l’aria che tira a est. Inadempiente, perfino la Norvegia, che esprime il segretario generale Nato, Stoltenberg, il quale sconfessa le intemerate d’Oltreoceano: «Ogni affermazione in cui si parli della possibilità che i Paesi membri non si difenderanno reciprocamente mette a rischio la sicurezza di tutti, Usa inclusi, ed espone i soldati americani ed europei a rischi crescenti». Dopo aver chiesto di prepararsi a un confronto decennale con Mosca, Stoltenberg prova a riattivare il buon nome dell’articolo 5: «La Nato resta pronta a difendere tutti i suoi alleati».
Stando ai numeri, pure l’Italia inadempiente, anche a causa dei vincoli Ue. Roma punta a impegnare il 2% solo nel 2028 (circa 13 miliardi in più ogni anno); ferma all’1,46% (in calo rispetto al biennio precedente), tanto da far parlare il ministro Crosetto di «Italia Pierino della Nato» giusto l’anno scorso. Maglia nera anche per Francia, Turchia, Slovenia, Canada, Portogallo, Repubblica Ceca, Danimarca, Olanda, Albania, Croazia, Bulgaria, Macedonia del Nord, Montenegro, Lussemburgo (0,72%), Belgio (1,13%) e Spagna (1,26%).
La Germania ha invece dato segnali di cambio di passo. Scholz a novembre ha garantito il 2% permanente, sommando al bilancio il fondo speciale per la Bundeswehr, le Forze armate teutoniche, istituito nel 2022 dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Spiegò che i 100 miliardi per il riarmo (già una rivoluzione) erano solo un primo passo. Risultato: Berlino dovrebbe centrare l’obiettivo Nato quest’anno. Quella francese è invece una chiara scelta di campo. Parigi ha sì raddoppiato i fondi per la difesa, ma guardando a Bruxelles. «Servono garanzie di sicurezza come europei, a 27», ha spiegato ieri il ministro degli Esteri Séjournè evocando «budget che ci permettano di organizzare la difesa Ue in modo più concertato, una proposta francese che oggi assume ancor più significato, mettere in comune le nostre capacità militari, creare interazioni tra eserciti e raggiungere più integrazione su industria e temi operativi per la sovranità europea». Se Scholz ha dato rassicurazioni alla Nato, Parigi sembra volersi smarcare senza nascondere l’ambizione di guidare un esercito europeo; motivo per cui resta un miraggio.