A Sanremo quest’anno c’è un perdente di successo: è il monologo politico o sociopolitico o impegnato o chiamatelo come volete. Insomma la supercazzola alla Ferragni, quella che «pensati libera» e tutti applaudono perché non si può che applaudire, altrimenti gli altri fischiano.
Quest’anno, a parte pochissime eccezioni, il monologo dell’ospite o della coconduttrice di turno è stato spalmato nelle storie raccontate sul palco oppure nelle parole intorno alle canzoni, come quelle di Amoroso contro l’odio social o di Annalisa ieri in sala stampa sull’importanza dei sogni. In pratica è per fortuna finita un’epoca, quella dei discorsi in prima serata imbellettati di politicamente corretto che srotolano banalità, dilatano la scaletta ma non aggiungono nulla se non le ovvietà che anche no, perché chi le conosce non ne ha bisogno e chi non le conosce se ne frega.
Insomma non spostano di un millimetro la realtà. Per anni ci è piaciuto enfatizzare il buon senso trasformandolo in novità perché recitato davanti a milioni di telespettatori che dopo restano come prima. Stavolta ciao, anzi addio. Il monologo di Sanremo è in via di estinzione e nessun Wwf lancerà campagne per salvarlo. C’è ancora qualche resistenza, come nel caso di Teresa Mannino e del suo intervento woke e pazienza se l’elogio della comunità delle formiche tagliafoglia in cui i maschi devono solo «fornire gli spermatozoi», così le femmine sono felici perché «non hanno problemi a gestire gli ex» e gli uomini «sono felici perché la loro vita è un’unica grande scopata e poi muoiono», è una versione riveduta e politicamente corretta della tanto esecrata canzoncina di Cecco il panettiere (ossia Abatantuono) in Fantozzi contro tutti: «So’ diabolico nell’amplesso, sprupurzionato per quel che riguarda le dimensioni di sesso e se trovo la donna adatta…». Insomma, a Sanremo il monologo impegnato ha fatto il suo tempo e per fortuna nessuno ne sentirà la mancanza, tanto meno il buon senso.