(Il Cairo) Le eliche del C-130 dell’Aeronautica militare fendono l’aria, dando vita a un rumore sordo e cupo. A bordo dell’aereo sono già presenti Giacomo Tardini, pediatra di terapia semi intensiva, e Ilaria Reale, infermiera di rianimazione pediatrica. Entrambi provengono dall’ospedale Gaslini di Genova, sono alla loro prima missione all’estero e non nascondono di essere emozionati. “Il mio è un reparto che ha una grande vocazione al trasporto di bambini malati”, racconta Tardini. “Nonostante questo, dentro di me sento un po’ di paura e di timore”.
L’ospedale in cui si trovano i bambini di Gaza è l’Umberto I de Il Cairo, gestito dalle sorelle comboniane. Suor Pina, capelli grigi e piglio deciso, dispensa sorrisi e parole di conforto ad ogni paziente: “Il bene che facciamo non è mai abbastanza”, dice. “Quando i bambini sono arrivati qui erano terrorizzati. Avevano paura di tutto, si nascondevano. Avevano ancora il ricordo terribile delle bombe”, prosegue la suora mentre ci accompagna – insieme al capo dell’unità di crisi della Farnesina, Nicola Minasi – nelle camere.
Il primo paziente che incontriamo, un ragazzo di 19 anni di nome Abdel, è inchiodato al letto. Ha gli occhi lucidi e persi nel vuoto: “Quando gli israeliani ci hanno bombardato ero a casa con la mia famiglia. Sono sopravvissuto solo io”, sussurra. Chiede se, quando arriverà in Italia, riceverà le cure di cui ha bisogno o se dovrà aspettare a lungo. Suor Pina cerca di confortarlo, ma nello sguardo del giovane la patina della morte non è ancora andata via.
Sarah, cinque anni, ci viene incontro sorridendo nonostante abbia il bacino rotto e sia zoppa. Non appena ci vede, dice solo una parola: Italia. Anche lei si trovava in casa con la sua famiglia quando è stata bombardata. La mamma di Sarah, incinta al sesto mese, è rimasta paralizzata mentre suo padre è ancora disperso. “Speriamo di poter vivere una vita lontano dalla guerra”, dice la zia della bambina. Ma è davanti alla storia di Minerva che suor Pina si commuove: “Quando è arrivata non riusciva a guardare nessuno, tanto era scioccata.
Il cambiamento è avvenuto il giorno del suo compleanno, poco dopo il suo arrivo: era felice di aver avuto la possibilità di dormire in un letto vero e di aver fatto una doccia”. Jan sorride mentre Khan scoppia in un pianto terribile: le hanno dovuto amputare un piede in seguito ad un raid e non vuole che la gente la veda così. Anche lei fatica a fidarsi degli altri. Abdel, cinque anni, ha il cranio rotto e la guerra gli ha già portato via il fratello maggiore. La piccola Rania, invece, sogna un posto dove non si combatte perché, dice, ha già visto troppa gente morire. E poi Karim, il più piccolo del gruppo: ha solo un anno e mezzo ma il suo corpo è già una piaga fatta di ustioni. Questo è il loro passato, che per ora si sono messi alle spalle. “Italia, Italia” continuano a ripetere.
Per esfiltrare i bambini è stato fondamentale il ruolo della diplomazia: l’Italia ha giocato di sponda con il Qatar, che ha fatto da mediatore con la parte palestinese, e con Israele. Quella di ieri è l’ultima missione in ordine di tempo per portare i bambini malati e feriti di Gaza in Italia. Ma non solo. Come ha ricordato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, un ruolo fondamentale l’ha giocato la Custodia di Terra Santa: “Devo dire che padre Ibrahim è stato uno dei protagonisti di questa azione, sono i custodi di Terrasanta che hanno lavorato tanto per permettere di raggiungere un accordo tra Italia, Israele, Egitto ed Autorità nazionale palestinese. Poi – ha aggiunto – c’è qualcuno che ha fatto sì che non si ostacolasse l’uscita di queste persone dalla Striscia di Gaza: quindi una bella operazione, dopodiché la Chiesa attraverso padre Ibrahim ha fatto molto per aiutare questa popolazione che soffre di una guerra di cui non è colpevole perché non possiamo far coincidere Hamas con la popolazione palestinese”.
Nelle scorse settimane, sono già stati effettuati due voli militari ed è stata impiegata la nave ospedale Vulcano (e il nostro è stato l’unico Paese, insieme alla Francia, ad aver mandato un simile vettore). Come ha ricordato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, “siamo stati i primi a portare aiuti alla popolazione civile di Gaza. Abbiamo inviato una nave ospedale, progettiamo di installare un ospedale da campo e continuiamo con i ponti aerei per portare minori palestinesi in Italia e curarli nei nostri ospedali. Si tratta, per ora, di circa cento bambini con le loro famiglie, altri ne arriveranno. Sono vittime innocenti di questa guerra. Vogliamo fare di tutto per alleviare le loro sofferenze. Siamo amici di Israele e lavoriamo per l’unica scelta di pace possibile che prevede due popoli e due Stati”.
Missioni via mare e via cielo, segno della cooperazione e della coordinazione della Difesa e delle Forze armate. “È un’operazione che nasce fin dall’inizio con un disegno interforze e interagenzie”, ha detto il generale Francesco Paolo Figliuolo, comandante del Covi, a IlGiornale. “È una missione complessa in cui si lavora con il ministero degli Esteri, le unità di crisi, il ministero della Difesa, dell’Interno, della Salute e l’intelligence. È uno sforzo doveroso, fatto coordinandoci con altre nazioni: su nave Vulcano, per esempio, era a bordo un team medico del Qatar”. Ora il Comando Operativo di Vertice Interforze, che dirige e coordina le operazioni, sta già lavorando per schierare un ospedale da campo dell’Esercito non appena le condizioni di sicurezza nell’area di Rafah lo consentiranno. Finalmente i bambini palestinesi, insieme ai loro accompagnatori, sono arrivati in quell’Italia di cui hanno sentito tanto parlare e della quale hanno imparato a pronunciare il nome. E dai loro occhi un po’ più sereni si capisce che si sentono già un po’ più a casa.