All’ingresso del teatro Ariston, la Regione Liguria ha collocato una copia antica di Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne, un’opera di Artemisia Gentileschi (1593-1656 circa). Si promuove così la mostra in corso al Palazzo Ducale di Genova (Artemisia Gentileschi. Coraggio e passione) e si lancia un messaggio d’attualità. Artemisia ebbe la vita segnata da un maestro stupratore, Agostino Tassi. La artista andò oltre: sfidando i pregiudizi e le malelingue, trascinò in tribunale il suo carnefice e vinse, almeno simbolicamente. Tassi non fece galera ma fu costretto all’esilio. Il quadro rappresenta una donna, Giuditta, così forte da decapitare il malvagio Oloferne, desideroso di mettere le mani addosso a lei e alla città di Betulia. Oloferne però alza troppo il gomito e Giuditta libera se stessa e Betulia con un colpo di spada. Nell’opera, Giuditta e la sua ancella reggono una cesta nella quale è appoggiata la testa mozzata di Oloferne. Il contrasto è azzeccato: la violenza e il sangue all’ingresso del tempio delle canzonette d’amore. Provocazione rock, anzi punk, probabilmente l’unica del Festival. Ma Sanremo è Sanremo e trasforma tutto, anche le migliori intenzioni, in chiave grottesca. Infatti va di gran moda il selfie femminista con maschio decapitato. Dagli al patriarcato, sempre e comunque. Anche se non c’entra nulla con l’episodio biblico raffigurato da Artemisia. Ecco dunque gli artisti sorridenti posare nel foyer accanto al cranio mozzato, scattarsi una foto e pubblicarla sui social network. Tra i primi, Fiorella Mannoia e la ligure Annalisa, subito raggiunti da Francesco Facchinetti, Clara, Sangiovanni e Francesco Renga.