Fuori dalla realtà

Fuori dalla realtà

Urge aggiornare il dizionario con un altro neologismo. Fino a oggi avevamo – a fatica, va detto – iniziato a familiarizzare con il termine phombie, ora toccherà scervellarsi per trovare un nuovo termine. Se phombie è la crasi tra phone e zombie e serve a identificare quella massa di persone ciondolanti che si muove per le città curva sui suoi smartphone, come andranno chiamati gli alieni che da qualche giorno circolano negli Stati Uniti? Descriviamoli, prima di andare avanti. Indossano quelli che a prima vista sembrano degli occhialoni da sci oversize e camminano agitando braccia e mani, pinzano nell’aria con le dita, a volte pare stiano dirigendo un’orchestra, altre volta ricordano Jerry Lewis nella scena della macchina per scrivere, sorridono se li guardi con aria stranita, parlano, rispondono e riescono a descrivere in maniera puntuale tutto ciò che li circonda. Sono i finora pochi possessori dell’ultima creazione di casa Apple, il «vision pro», un visore per la realtà aumentata per il momento destinato al mercato statunitense (in Europa dovrebbe arrivare entro la fine dell’anno), in vendita dal 2 febbraio al costo di 3.499 dollari. Questi sì reali, mica virtuali.

Cosa succede ai «vhombie» che li indossano? L’Apple vision pro è un concentrato di tecnologia. Possiede due microprocessori e due schermi microOled super definiti con 23 milioni di pixel per ciascun occhio; nella parte inferiore 12 telecamere, 5 sensori e 6 microfoni tracciano ciò che succede all’esterno del visore e all’interno (seguendo il movimento degli occhi di chi lo indossa). Già, ma per far cosa? Chi lo indossa vede sullo schermo una copia esatta del mondo che lo circonda. A questa può essere sovrapposto tutto quello che siamo abituati a vedere sullo schermo del nostro smartphone o del nostro pc. Quindi, seduti sul divano in salotto, possiamo aprire applicazioni e documenti, navigare in internet, vedere un film come se di fronte a noi ci fosse uno schermo da un centinaio di pollici, digitare un testo utilizzando una tastiera che non c’è. Già, perché i sensori di cui il visore è dotato gli permettono di vedere e decodificare i gesti delle mani di chi li indossa. Il tutto per arrivare a un nuovo capitolo della disintermediazione tra reale e virtuale: chi li ha provati afferma che si può tranquillamente vivere indossando questi visori.

In rete circolano già i primi video, i primi test e le prime recensioni. Una delle migliori è quella dello youtuber statunitense Casey Neistat, un guru per tutto ciò che è nuovo, mediamente Nerd e di tendenza. Dopo averlo indossato per un intero giorno il suo resoconto è sorprendente. «A un certo punto della giornata – spiega – nel mio cervello è come scattato un clic, e tutto quello che vedevo proiettato davanti ai miei occhi era per me la realtà». Che poi il nodo è tutto qui. Cosa è reale? Cosa è virtuale? Virtuale è tutto ciò che è «in potenza», spiega la filosofia classica. Ma qui siamo un passo oltre. Il virtuale si mescola al reale in maniera così profonda che il nostro cervello fatica a distinguerne i tratti. Un po’ come quei bambini che, abituati a ingrandire sui tablet le immagini con le dita, provano a fare lo stesso zoom sui libri di carta. «Questo è il futuro che ci promettono da 15 anni», conclude Neistat nel suo video.

Per il momento è un futuro a tratti distopico, ma anche profondamente esilarante. Su internet si trovano filmati di persone che digitano nell’aria mentre (non) guidano una Tesla: a proposito, dopo questo video Tesla ha vietato di indossare i visori mentre (non) si è al volante; si vedono persone attraversare la strada mentre provano ad afferrare chissà cosa nell’aria o amici riuniti attorno a una tavolata che mangiano indossando ognuno il suo visore. A pensarci bene siamo al paradosso dell’alienazione. Ci si riunisce per restare ognuno immerso nel proprio ambiente real-virtuale. E allora: è proprio questo il futuro che attendevamo da 15 anni?

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