Non tutte le verità sono uguali. Alcune sentenze sembrano scolpite nel marmo e i dubbi non sono ammessi. Altre invece non convincono, anzi ballano pericolosamente, secondo esperti e professoroni, su fondamenta esili, o comunque devono essere interpretate. Il metronomo della sinistra funziona così e batte sempre due tempi. Quello delle certezze irrevocabili se le stragi, per citare l’eredità giudiziaria più dolorosa, sono quelle commesse o attribuite ai fascisti, quello dei retropensieri se invece gli autori dei crimini appartengono all’altra parte.
Prendiamo, per fermarci ad un classico di questo genere, l’assassinio del commissario Calabresi. Oggetto di una stupefacente querelle dibattimentale, ma soprattutto di una campagna di controinformazione, stoica difesa degli imputati – di tutti gli imputati da Adriano Sofri a Giorgio Pietrostefani e a Ovidio Bompressi, ritenuto dalla magistratura il killer del poliziotto – e lettura ipercritica delle motivazioni dei numerosi verdetti.
Lo stesso metro non si applica al massacro del 2 agosto 1980, alla Stazione di Bologna, una delle pagine più cupe e per certi aspetti indecifrabili della storia italiana. Una carneficina spaventosa e senza precedenti cui sono attaccate due condanne da sempre contestate: quelle degli estremisti di destra Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. Che hanno tranquillamente ammesso una sfilata di orrendi delitti, ma non quello, sostenendo che loro non c’entravano niente con quella vicenda. Si scopre ora che gli stessi dubbi li coltivava il presidente della repubblica Francesco Cossiga. La figlia Anna Maria racconta in un’intervista ad Aldo Cazzullo per il Corriere della sera che lei un giorno quei due ragazzi se li trovó «in salotto che bevevano il tè» e rimase «basita». Ma il padre la tranquillizzo: «Figlia mia, per la strage di Bologna sono innocenti».
Un’affermazione molto forte e coraggiosa che probabilmente si perderà nel vento, come tutte quelle precedenti relative alla coppia di terroristi neri.
I verdetti su Bologna non si toccano. Perché metterebbero in crisi gli orientamenti di fondo di un’intellighenzia che vede il male solo da una parte. E non vuole riconoscere che la realtà a volte tradisce gli schemi.
Andava benissimo Cossiga quando predicava che la strage di Ustica, insomma l’abbattimento del Dc9 dell’Itavia, portava la forma di un missile francese, tesi rilanciata con grande clamore poche settimane fa da Giuliano Amato.
In questo caso, nessun balbettio e nessun tentennamento. La verità giudiziaria è a dir poco confusa e autorevoli periti si espressero per la tesi della bomba. E qualcuno nota la raccapricciante vicinanza delle due ecatombi: 27 giugno e 2 agosto 1980, ipotizzando una mano palestinese. Come spiegó al sottoscritto nella penombra di Villa Wanda Licio Gelli, che pure era stato condannato per depistaggio su Bologna. «L’esplosione alla Stazione fu causata dall’errore di un terrorista palestinese», mi disse un giorno di molti anni fa. Non ci sono le prove. Ma resta l’Italia asimmetrica: quel che è Vangelo di qua è scomunica di là.
Così, per passare ad un’altra tragedia, si continua a indagare sulla strage, di marca neofascista, di piazza della Loggia. Il 28 maggio a Brescia arriverà Mattarella. Sono passati quasi cinquant’anni, ma a breve si apriranno non uno ma ben due processi: uno contro Roberto Zorzi, in Corte d’assise, l’altro contro Marco Toffaloni al tribunale per i minori. All’epoca infatti Toffaloni era un ragazzo di 16 anni, per inchiodarlo si scava ancora dopo mezzo secolo, per dubitare di Mambro e Fioravanti non basterà nemmeno sapere che il capo dello Stato li invitava in salotto per un tè.