L’1 dicembre 2006 giorno dell’atroce carneficina passata alla triste storia come «Strage di Erba» ero impegnato quale Procuratore della Repubblica di Bolzano, negli ultimi dettagli organizzativi di un convegno. D’altronde, considerata l’eco mediatica dovuta all’atrocità dei fatti, era difficile rimanerne estranei. Ricordo anche benissimo che il mio primo e unico pensiero fu «una spietata faida tra bande criminali». Nulla di più. È quindi con molto stupore e non poche perplessità che, poco dopo Capodanno, ho appreso dell’arresto di due coniugi, vicini di casa delle vittime, due persone che mi apparivano ontologicamente incapaci di atrocità quali quelle di cui erano accusati, oltretutto originate da banali liti condominiali. Lo stupore e le perplessità hanno però subito fatto posto alla mia indole di uomo delle Istituzioni. Non conoscendo altro modo che questo di fare il magistrato, davo per scontato che le prove raccolte dagli inquirenti a carico dei due fossero solide, tali da giustificare l’arresto, e che le successive confessioni fossero spontanee e genuine.
Fino all’autunno 2022 la «strage di Erba» era un lontano e vago ricordo, i nomi Olindo e Rosa, non mi dicevano assolutamente nulla e non avevo alcun motivo per dubitare della loro colpevolezza. Tra la fine dell’estate e l’inizio di autunno del 2022, l’avvocato Paolo Sevesi professionista serio e persona perbene, che avevo conosciuto da non molto per ragioni professionali mi chiese cosa pensassi della «Strage di Erba». Alla mia risposta «praticamente niente perché niente ne so», mi diede in mano un libro chiedendomi di leggerlo.
Si trattava della prima edizione de Il grande abbaglio scritto da Edoardo Montolli e Felice Manti, pubblicato ancora nel 2008.
Ho iniziato a leggere il libro, scritto con un linguaggio ed uno stile così asciutto, senza fronzoli e con riferimenti specifici e documentali tali che, più mi inoltravo nella lettura, più si faceva in me strada l’angoscia al solo pensiero che, se quanto stavo leggendo era vero, due persone non colpevoli sono in carcere dal gennaio 2007 e quindi da quasi, allora, 16 anni.
Ho avvertito, quindi, forte la necessità di approfondire, di andare alla fonte e quindi di studiare gli atti processuali, di ascoltare le intercettazioni ambientali, di ascoltare le registrazioni degli interrogatori, di leggere le sentenze. Insomma, di fare il magistrato. Un lavoro che mi ha impegnato per diverse settimane durante le quali ho tolto molte ore a famiglia, tempo libero e sonno. Non al lavoro ordinario.
Una volta maturata la mia certezza interiore che le prove che hanno «inchiodato» Rosa e Olindo non dimostravano e non dimostrano la loro colpevolezza, ho deciso di scrivere e di depositare la richiesta di revisione che tanto clamore ha suscitato all’esterno, così come all’interno dell’ufficio.
Solo per chiarezza: della richiesta di revisione rivendico convinto, sia il merito, sia il metodo. Il merito nel senso che ho scritto ogni parola con coscienza e volontà, nella perfetta consapevolezza anche della delicatezza di quanto affermavo. Il metodo nel senso che, con altrettanta coscienza e volontà, ho depositato la richiesta di revisione, certo della mia legittimazione e della correttezza del mio operato. Su entrambi, merito e metodo, sono ora altri a dover decidere.
* sostituto Procuratore generale di Milano