L’evidente fallimento della politica di deterrenza statunitense nei confronti dell’Iran si manifesta nelle aggressioni concomitanti di cui le truppe americane sono bersaglio in queste settimane: le milizie duodecimane in Libano (Hezbollah), Siria e Irak che hanno fatto tre vittime; i raid zayditi (Houthi) che nello Yemen hanno attaccato con missili e droni iraniani le navi occidentali in transito nel Mar Rosso, danneggiando l’economia egiziana e quella mondiale; e infine le aggressioni a Gaza dei sunniti di Hamas, finanziate su scala più ampia da Teheran e dalla Jihad sciita. Una rete di offensive che sarebbe inspiegabile, data l’estrema fragilità economica dell’Iran e le gravi limitazioni delle sue forze armate, se non fosse per il persistente effetto dell’unico contributo di Obama alla politica estera americana: i negoziati con il regime di Teheran, i cui protagonisti restano al centro della scena a Washington.
Dopo vari bombardamenti statunitensi che non sono riusciti a fermare gli attacchi dei miliziani contro le truppe americane e le navi del Mar Rosso, venerdì notte una coppia di bombardieri pesanti B-1 inviati dalla Dyess Air Force Base, in Texas, ha volato per circa 7.057 miglia per lanciare 125 missili contro 85 obiettivi dei miliziani in Irak e Siria. Sabato, poi, la Marina statunitense e i jet della Royal Air Force da Cipro hanno attaccato 36 obiettivi Houthi nello Yemen.
L’offensiva è stata un impressionante promemoria del fatto che gli Stati Uniti possono bombardare qualsiasi obiettivo da qualsiasi base e che gli inglesi sono ancora in grado di fare la guerra (nel Mar Rosso c’è anche una flottiglia dell’Unione Europea, la cui inattività è anch’essa impressionante a suo modo…). Tuttavia, nessuno di questi attacchi è in grado di persuadere l’Iran a interrompere ulteriori forniture di missili e droni alle sue milizie, se non altro perché diversi funzionari Usa hanno immediatamente ed enfaticamente negato l’intenzione di bombardare qualsiasi obiettivo all’interno del territorio iraniano, senza legare la decisione al comportamento del regime. Inoltre, gli ampi avvertimenti pubblici dati prima dell’attacco aereo del 2-3 febbraio hanno indubbiamente assicurato che le Guardie Rivoluzionarie iraniane non fossero in alcun modo vicine ai siti attaccati, né ai missili. Israele ha ripetutamente e deliberatamente preso di mira gli ufficiali delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, uccidendo di recente quattro colonnelli e generali minori, ma non gli Stati Uniti – fatta eccezione per la decisione di Trump di uccidere Qassem Soleimani il 3 gennaio 2020, che è stata debitamente criticata per la violazione della legge non scritta di Obama secondo cui l’Iran può attaccare chiunque, ma nessuno può attaccare l’Iran o i suoi preziosi leader.
Tutto è iniziato all’inizio dell’amministrazione Obama. Come tutti i suoi predecessori, Barack Obama era entrato alla Casa Bianca con una lista di promesse elettorali a cui tener fede. Ma tra queste, ve ne era una che aveva fatto solo a se stesso e che era davvero determinato a mantenere: realizzare una vera riconciliazione con l’Iran, non solo per eliminare un attrito costante e un pericolo intermittente, ma anche per ridurre, addirittura eliminare la necessità strategica di sostenere due alleati regionali che personalmente detestava, Israele e Arabia Saudita.
Obama aveva anche un piano d’azione: avrebbe innanzitutto conquistato gli ayatollah chiedendo scusa per lo scellerato passato dell’America in Iran. Intendiamoci, non quello documentato dalla storiografia, ma quello rappresentato dalla sinistra globale, secondo cui furono un pugno di agenti statunitensi e britannici a rovesciare l’inetto, prostrato e lacrimoso primo ministro Mosaddegh nell’agosto del 1953, e non la rivolta di massa registrata da film e fotografie. Dopo aver dimostrato così i suoi sinceri buoni propositi, Obama avrebbe offerto alla Repubblica islamica l’allettante prospettiva di un disimpegno strategico degli Stati Uniti da Israele e dall’Arabia Saudita in cambio della ripresa delle relazioni diplomatiche, con la promessa implicita di non imprigionare nuovamente i diplomatici statunitensi, si presume. Fare concessioni solo per avere relazioni diplomatiche è una cosa che fanno unicamente gli «Stati paria», ma per Obama si trattava di un piano davvero molto intelligente, perché quello che avrebbe offerto ai governanti iraniani non era altro che quello che voleva per sé.
Tuttavia, Obama non poteva semplicemente incaricare il governo di realizzare il suo piano. Non solo perché sia Israele sia l’Arabia Saudita possono contare su una discreta presenza a Washington, che potrebbe rapidamente mobilitare l’opposizione del Congresso e non solo, ma anche perché pochissimi funzionari dell’esecutivo condividevano la sua opinione sui tre Paesi e la sua implicita supposizione che i governanti iraniani desiderassero davvero la tanto agognata riconciliazione. Questo è stato certamente il caso del suo consigliere per la sicurezza nazionale e capo del Consiglio per la sicurezza nazionale, il generale in congedo James L. Jones, che guardava all’Iran con un sospetto perfettamente giustificato, considerava la sicurezza dell’Arabia Saudita un importante interesse degli Stati Uniti e Israele uno storico alleato con capacità operative fuori dal comune.
Ma anche per questo Obama aveva un rimedio: la sua squadra per l’Iran, a partire dal suo vecchio amico di Harvard Robert Malley, che era stato coinvolto molto presto come consigliere nella sua prima campagna presidenziale, e Valerie Jarrett. Malley non aveva alcuna esperienza in materia di Iran e non aveva ancora stretto i successivi legami con Teheran, ma era comunque l’uomo giusto: era un assoluto anti-sionista di seconda generazione (ho sentito parlare per la prima volta dei suoi genitori a Parigi, dove entrambi lavoravano per l’FLN algerino, che allora si sforzava di superare tutti gli altri arabi nel loro odio per gli ebrei e Israele), e detestava anche la monarchia saudita. Valerie Jarrett, un’importante politica di Chicago che aveva contribuito a facilitare la fulminea ascesa di Obama, non aveva tali antipatie, ma si dava il caso che fosse nata in Iran da genitori americani e che parlasse il farsi fin da bambina. Alla Jarrett fu assegnato un ampio staff alla Casa Bianca, seppure per lavorare sugli affari interni, ma il suo riguardo «sentimentale» per l’Iran è stato utile per i messaggi propiziatori di Obama a Teheran, e la Jarrett sarebbe stata utile anche per placare le preoccupazioni dei suoi amici ebrei di Chicago, che erano stati i primi sostenitori di Obama.
1-continua
Traduzione a cura di Marco Zucchetti